Solo recentemente Franco Santopolo mi ha fatto conoscere la storia di Rosina Lupia di Belcastro (CZ), poetessa-contadina senza scuola, protagonista delle lotte per l’occupazione delle terre incolte del Marchesato Crotonese e dei territori ionici contermini durante l’ultimo dopoguerra, nonché interprete originale e profonda della cultura popolare identitaria, a lungo condannata alla marginalizzazione, all’insignificanza e all’oblio. “Una donna bellissima e dotata di grande carisma, intelligenza e sensibilità, inventava poesie e canzoni”, che dettava a un bambino, sottraendole così all’oblio del tempo, ma non all’incuria degli uomini, soprattutto dei cultori della retorica contadina e dei valori naturali e primitivi, come Curzio Malaparte e Giovanni Papini :mi sento profondamente d’accordo con le vacche e con la nostra cara e buona lingua di bifolchi e di genii”.Rosina partiva dal gradino sociale più basso, essendo donna, povera e analfabeta, puntualizza Santopolo, integrando quanto scritto da Alberto Iacoviello sull’Unità il 31 marzo del 1950: “E’ una specie di genio contadino, parla un linguaggio che contiene la saggezza di secoli e la verità comune a migliaia di contadini”. Una ribelle (secondo i canoni di Eric J. Hobsbawm), non il buon selvaggio o il genius loci del folclore locale, da rinchiudere nello spazio sociale e letterario del caso singolare. Rosina è poeta del mondo contadino calabrese, cantora della giustizia e della fratellanza, dei valori identitari della cultura subalterna e della tragica regressione del Sud negli anni del boom economico del Nord, che ispirava a P.P. Pasolini il famoso epigramma: “chi era coperto di croste è coperto di piaghe/ il bracciante diventa mendicante/ il napoletano calabrese/ il calabrese africano/ l’analfabeta una bufala o un cane”. Una figura marginale nella gerarchia della società locale –subalterna ed esclusa che riesce a conquistare una sicura centralità ed evidenza sociale, col suo carico eversivo rivoluzionario (donna senza marito, povera e senza scuola) di soggetto organico e vivo di un collettivo-casa, vissuto come un’altra religione del suo tempo. Aveva rifiutato l’emigrazione assistita e programmata in Brasile, dove l’Istituto Nazionale per il Lavoro all’Estero aveva pianificato la fondazione di una colonia agricola a Pedrinhas, al confine col Paranà, sul presupposto che “la terra è insufficiente per trattenere i contadini in Calabria”. Molte famiglie continuavano a sopravvivere con un pane al giorno e con una minestra di cicorie selvatiche o di fagioli; il pane veniva diviso in due parti, metà per il capofamiglia procacciatore di reddito e l’altra metà per i figli e la madre. Qualcuna era morta letteralmente di fame, dopo aver allattato l’ultimo nato. Emigrarono in Brasile oltre 110.000 Italiani, più del doppio in Venezuela, 464.000 in Argentina e mezzo milione negli Usa e in Canada. Intanto in Calabria, seguendo il principio dell’appoderamento, venivano costruiti 24 nuovi borghi e 4.736 casette rurali sui 74.813 ettari di terreni espropriati o acquistati dall’Ente di Riforma (OVS) e assegnati dalle prefetture e dalle.......................