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martedì 8 maggio 2018

Nicola Barbuto storia del prete scomodo di Simeri Crichi nella Calabria del Risorgimento." Il prete sicofante e le patriote invisibili " di Marcello Barberio.

Calabria e Risorgimento
Il prete sicofante e le patriote “invisibili”
di Marcello Barberio
Forse per tacitare il disagio della condivisione della cittadinanza con un personaggio che ha lasciato al paese natale l’infamante contumelia dei testimoni falsi per antonomasia, ho scritto più volte   -   seguendo l’intreccio delle Ricordanze della mia vita  -  dell’arresto a Catanzaro, nel 1839, di Luigi Settembrini, in seguito alla delazione alla polizia borbonica del prete di Crichi, Nicola Barbuto. Preoccupato d’indagare le ragioni vere del tradimento del mio compaesano e le eventuali ricadute del suo gesto sulle vicende del Risorgimento meridionale, ho glissato sui personaggi femminili della vicenda, già condannati alla invisibilità dalla retorica ufficiale e dalle narrazioni canoniche, in quanto personaggi minori, a latere dei loro uomini. Ed è stato così anche per Raffaela
Luigia Faucitano Settembrini, destinata a una vita claustrale e invece andata sposa a 17 anni al giovane professore di retorica e greco del Regio Liceo di Catanzaro.
Nel ’38 ispirò al marito il dramma “La donna del proscritto”, che non venne rappresentato nell’unico teatro cittadino, per la ferma e strumentale opposizione dell’intendente, il principe di Giardinello. Nel ’39  mise in guardia il marito alla vista del prete traditore; al quinto mese di gravidanza non esitò a raggiungere Settembrini a Napoli in occasione del suo primo arresto, pretese di parlare col ministro della polizia Francesco Saverio Del Carretto, con alti prelati e intendenti, andò fino all’isola di Santo Stefano dove il marito scontava la sua seconda condanna, in seguito alla pubblicazione clandestina del pamphlet “Protesta del popolo delle Due Sicilie”e alla fondazione della setta Unità Italiana. Eppure la storiografia ufficiale la ricorda solo come  custode dell’epistolario del  marito e per le sue lettere intercettate dalla polizia borbonica nel carcere napoletano di Santa Maria Apparente nel 1842 e indirizzate a Benedetto Musolino.
 “ Così passarono gli anni 1837 e 1838”.  -  racconta Settembrini  .  “ Ma tosto ci fu un traditore. Un prete mio amico G(aetano)L(arussa) volle che io conoscessi il parroco di un paesello chiamato Crichi, col quale ei mi disse che s’erano allevati insieme in seminario, e che era liberale e bravo, e si chiamava Nicola Barbuto. Quando io vidi questo parroco Barbuto sentii certa ripugnanza per lui, e mia moglie con quel fino senso che hanno le donne lo temeva come un nemico, ch’egli era brutto e nero come un topo, e aveva il labbro leporino: pure io l’accolsi  e gli feci dare un catechismo. Io gli diedi una lettera per Raffaele Anastasio, farmacista in Cosenza, e una pel Musolino in Napoli [ …] La notte dell’8 maggio 1839 mentre io dormivo mi fu accerchiata la casa da gendarmi e poliziotti..” E fu tradotto a Napoli.
 Ricorda Giuseppe Paladino (1) che nel Mezzogiorno operavano circa 12.000 convertiti alla setta carbonara I Figlioli della Giovane Italia, fondata nel ’32da Benedetto Musolino di Pizzo. Il parroco Nicola Barbuto di Crichi-Simeri dette all’Intendente  una copia del noto catechismo, un foglio con il motto d’ordine e l’emblema dell’associazione, senza rivelare in
principio  da chi aveva ricevuto quelle carte. Messo alle strette, indicò poi un Francesco Marino di Albi, nome affatto immaginario, e aggiunse, per deviare l’attenzione dell’autorità, che la setta era più diffusa in provincia di Cosenza.
                                                             

                                                                                                  
Nicola Barbuto (di Alfredo Piacente)

Ma l’Intendente ve lo mandò con l’incarico di far ricerche e il prete, dopo aver lasciato sperare buoni frutti dalla sua missione, tornò senza aver concluso nulla. Queste contraddizioni e tergiversazioni misero in sospetto il principe Giardinelli, che, dopo aver consumato varii mesi inutilmente, si persuase che il poco degno sacerdote, essendo riuscito a impadronirsi delle carte, aveva immaginato un piano di cospirazione e tentativo d’ingannarlo, sicché decise di arrestarlo e farlo punire col dovuto rigore come falso denunziante. In quel mentre però venne dal ministero informato della faccenda, l’ordine d’inviarlo nella capitale. Le rivelazioni del Barbuto apparvero alla polizia centrale che sapeva come stavano le cose da altre fonti, sotto una luce ben diversa da quella, in cui potevano presentarsi alle autorità provinciali ignare di molti fatti. Il parroco fu condotto a Napoli nell’aprile 39 e sia che si sentisse più sicuro da eventuali vendette per le sue rivelazioni, sia che il carcere gli incutesse paura, disse tutto. Non Francesco Marino, ma il Settembrini era stato il suo iniziatore; egli stesso avevagli dato, quando si era messo in via per Cosenza, una lettera di presentazione e raccomandazione per Raffaele Anastasio, farmacista in quella città e organizzatore della setta, e un’altra per il Musolino;  lettera che il prete non aveva consegnato ai destinatarii e che confessò di possedere ancora nella sua casa di Crichi-Simeri”. Settembrini, Musolino e gli altri furono tradotti al carcere di Santa Maria Apparente, a loro spese, “più fortunato l’Anastasio, messo a tempo sull’avviso, riuscì a darsi alla fuga” […] Settembrini negò di conoscere Barbuto e Anastasio”. Racconta Paladino.
Il ministro Del Carretto era convinto che la setta del Musolino fosse la stessa Giovane Italia di Giuseppe Mazzini, il quale in diverse occasioni si premurò di confutare l’equivoco. (2)  La bandiera dei Figlioli della Giovane Italia era nera a forma rettangolare con nel centro un teschio bianco sostenuto da due stinchi umani incrociati e la scritta “Riunione e Indipendenza Italiana.                  “I colori nazionali italiani si sarebbero adottati dalla Repubblica futura”. Il giuramento di fiere parole obbligava ogni convertito a essere “fedele, costante ed imperterrito soldato repubblicano […] ciecamente ubbidiente ai superiori […] di spegnere lo spergiuro e il denunziante [---] rinunziare a tutte le proprietà e tenerle in comune con tutti i fratelli convertiti […]”. E concludeva: “Se fossi così vile e miserabile da dimenticare i santi giuramenti pronunziati dinanzi a Dio e alla Patria, io sarei indegno di vedere la luce del giorno. Spegni allora crudelmente lo spergiuro!”E’ del tutto evidente la marginale influenza della Giovane Italia di Mazzini, che del giacobino di Pizzo rifiutava la concezione materialistica, il socialismo egualitario, il militarismo illuminato e l’anarchismo ante litteram. Da parte sua, Musolino ribatteva: “Il profeta di Bisagno, ostinandosi a ritenere la causa politica come inseparabile dalla religiosa, si espone a delle alternative poco favorevoli al suo ingegno come alla morale […] Non avendo potuto Mazzini guadagnare al suo partito i membri italiani del Comitato Latino, li fece denunziare al governo, accusandoli come cospiratori contro la sicurezza dello Stato”. Addirittura considerava il patriota genovese “un uomo nullo, intruso, usurpatore, giudeo errante della speculatrice democrazia del secolo XIX, un eccellente capo di scherani”. Altro che misticismo romantico.                                                        
                                                                  

Luigi Settembrini
Ma passiamo al processo dei cospiratori calabresi, seguendo l’orditura del Paladino:          “Settembrini imperniò il proprio sistema difensivo nel dipingere a foschi colori quelli che lo accusavano. Per Barbuto ebbe buon gioco a farlo dalla circostanza che il vescovo e un altro prelato dettero sfavorevoli informazioni di lui, e il primo si rifiutò di ascoltarlo allorché intendeva denunziare il buon professore di eloquenza”.
Per Settembrini: ”Sul Barbuto, l’istruttore ebbe da Catanzaro le più fosche informazioni, anche dal vescovo, che lo diceva 
indegno sacerdote e sospeso a divinis; ed altri lo accusarono di brutte infamie, che non voglio ripetere, e chiunque fu dimandato di lui, lo dipinse come un ribaldo[..]Quando si fu dichiarato denunziante, ognuno gli calò la mano addosso. Per non tornare più su di lui, dirò sin da ora che egli, sopraffatto dal pubblico disprezzo e dallo sdegno anche della sua famiglia, ammalò e morì poco dopo che fu fatta la causa”. La nemesi della borghesia e del clero carbonari.
Dagli studi di mons. Antonio Cantisani (3) risulta che, in quegli anni, era vescovo di nomina regia  di Catanzaro mons. Matteo Greco, di sicura fede borbonica, mentre “ sempre consistente era il gruppo di carbonari e di altri patrioti della nobiltà, in particolare intellettuali che nutrivano idee liberali, anche se da un punto di vista formale erano molto deferenti verso i Borbone”. La città contava 14.000 anime, distribuite in 10 parrocchie, mentre le 1.300 anime di Simeri e di  Crichi erano affidate alle cure di 14 preti. Secondo Umberto Caldora (“Calabria Napoleonica”), la regione contava poco meno di 800.000 abitanti, con 4719 preti, 701 frati, 609 monache, 356.000 campagnoli, 18.000 mendichi di cui 14.263 femmine. Con l’enciclica “Traditi Humilitati Nostrae” del 1829, Pio VIII aveva  condannato le società segrete, nemiche di Dio e dei prìncipi, dedite a procurare la rovina della Chiesa, a minare  
                                                    
                                                      

Benedetto Musolino
lo Stato e a sovvertire l’ordine universale, per cui “con tutto il Nostro zelo, vigileremo perché la Chiesa e la società civile non ricevano alcun danno dalla cospirazione di tali sette”. Già nel 1821, Pio VII, con la bolla “Ecclesiam a Jesu”, aveva proibito “la predetta società dei Carbonari o con qualunque altro nome chiamato”, concludendo: “A nessuno sia lecito contraddire con 

temeraria arroganza questo testo della Nostra proibizione e interdetto”.                                                       Secondo una consolidata tradizione locale, il prete delatore sarebbe morto in seguito ad una visita del protomedico di Catanzaro, che era accorso a Crichi per curarlo: il dottore non aveva ancora varcato il fiume Alli che le campane del paese già suonavano a morte. Nel Liber Mortuorum della parrocchia di Crichi, retta da don Domenico Sculco (4), risulta strappata la pagina dov’era stata registrata la morte di Barbuto: una mano pietosa deve aver pensato di occultare così la prova di una pretesa onta collettiva.  L’Archivio di Stato di Catanzaro, fondo Intendenza, custodisce “L’elenco dei giovani soggetti alla leva dell’anno 1824”, dove sono riportate distintamente le generalità dei coscritti di Simeri e di Crichi: al n° 65 di Crichi è annotato D. Nicola Barbuto, nato il 25 dicembre 1806, seminarista in Catanzaro, figlio di Domenico e di Diana Lopez.
La chiesa parrocchiale di Crichi custodisce una bella tela raffigurante “Scene delle anime del Purgatorio”(5), con la scritta “a devozione di Nicolino Lopez”, anno 1849. “Il prete rivelatore era un uomo perduto e perciò il vescovo erasi rifiutato di ascoltarlo”, conferma Paladino, sorvolando sui presumibili conflitti dell’uomo e anche sulla complessità della situazione politica. Nicola Barbuto, nell’aprile del ’39,  fu “condotto a Napoli, al sicuro da eventuali vendette per le sue  rivelazioni” e sottoposto a pesante interrogatorio, con l’eventualità del carcere che gli provocava grandissima paura, anche perché al suo primo arresto a Catanzaro, su ordine del Giardinello, era stato “punito col dovuto rigore”, cioè con la tortura. Per Settembrini, invece: “Non timore di Dio, né fedeltà al principe, ma il desiderio di farsi ricco e potente”.
E’ risaputo, però, che l’ala moderata della cospirazione del regno nutriva molte riserve sul programma dei Figlioli della Giovane Italia di Musolino, temendo lo sconvolgimento dello stato sociale e dei rapporti di classe nelle campagne e conseguentemente accusava i radicali fochisti di voler instaurare il socialismo con la violenza. Da parte sua Musolino non aveva alcuna remora a definire Mazzini un “uomo nullo, intruso, usurpatore, giudeo errante della speculatrice democrazia del secolo XIX, un eccellente capo di scherani”.(6) Anche la delazione diventava strumento di lotta nel complesso mondo della cospirazione e del settarismo, né il Risorgimento italiano  può essere                                                                                                                                    letto retoricamente come un processo storico lineare,sul mito del romanticismo, senza convulsioni e senza ostilità, scevro da tradimenti, ripensamenti e codardie. In “Cronaca dei fatti di Toscana, 1845-1849”, Giuseppe Giusti scriveva del patriota autonomista Giuseppe Montanelli: “Non ha né forte sentire né forte pensare. Nel ’31 fu della Giovane Italia, nel ‘33 sansimonista, poi socialista e comunista, poi ateo, poi bacchettone, poi giobertiano, poi daccapo mazziniano”. E Montanelli era professore di diritto all’Università di Pisa, fondatore del giornale “L’Italia”, volontario a Curtatone e Montanara contro gli Austriaci e infine autonomista-federalista contro la piemontesizzazione dell’Italia. Per Giovanni Spadolini si trattava, più semplicemente, di un dissidente del Risorgimento Italiano, come Enrico Cernuschi e Luigi Pianciani, cospiratori della sinistra liberale e componenti del Comitato franco-iberico-italiano (detto “latino”), sospettati nel ’51 di delazione alla polizia parigina contro altri esuli italiani, su ispirazione del mazziniano Comitato Democratico di Londra. Probabilmente, invece, era il frutto del lavoro della pervasiva rete degli occhiuti agenti e delatori delle varie polizie segrete (austriaca e borbonica in primis), come appare nei rapporti riservati dei tanti doppiogiochisti prezzolati, sulle  tracce dei patrioti risorgimentali emigrati a Parigi, a Londra e in Piemonte. Recentemente Agostino Botti ha pubblicato due epistolari, sotto il titolo di “Adalulfo Falconetti – Vita grama di una spia di Radetzky “ e “Giuseppe Favai – Una spia sulle tracce di Mazzini”. Anche le ostilità tra i patrioti contribuirono a tenere il popolo lontano dalle vicende risorgimentali, almeno fino all’arrivo di Garibaldi.  Ma torniamo alla cronaca del processo.
“Settembrini  - prosegue Paladino  - insistette sulla falsità delle dichiarazioni fatte dal Barbuto, attribuendogli la contraffazione della sua scrittura. Dette la colpa della disgrazia toccatagli al principe di Giardinelli e, quando si lessero le deposizioni dei testimoni, che lodavano l’onestà di sua moglie, esclamò: “E’ questo il mio peccato!”. Ma davvero le sue sventure erano da mettere in diretta relazione con l’onestà di sua moglie? Ci piace pensare che quell’esclamazione celasse piuttosto l’orgoglio per la riconosciuta virtù della sua Gigia. E non altro.
 Sappiamo che venne assolto, unitamente al Musolino, e posto in libertà provvisoria, con la concreta  possibilità per la polizia di trattenerli in carcere per altri due anni. Gigia non si perse d’animo, anche fuori dagli stereotipi del tempo, e riuscì a farsi ricevere dal re e dal ministro Del Carretto, per protestare contro l’ingiusta e arbitraria carcerazione del marito e di Musolino. Ma senza risultato.
“Nel mese di marzo del ’42  -   aggiunge Paladino  -   “fu scoperta per caso una corrispondenza tra Benedetto Musolino, che si firmava Pollak, e la moglie del Settembrini, detta Salica [..] La polizia volle interpretarle come documento di una relazione amorosa”, la quale, a dire del ministro Del Carretto “mostrava a chiare note in quale conto tener si dovessero le tante dicerie nella difesa della causa sull’inquisizione pur fatta in Catanzaro per debilitare le pruove irrefrangibili del processo, secondando così tutti i maneggi per potenti fini, onde la causa e i rei avessero buon vento, mentre in realtà, se non si vuole credere che il giovane calabrese fosse così astuto da celare sotto un linguaggio apparentemente innocuo sentimenti non lodevoli, si tratta di lettere di pura amicizia, che i due si scambiavano di tanto in tanto come ricordo della fraternità contratta negli anni giovanili. Il Settembrini vi è nominato col nomignolo di Omar. Finalmente il 25 ottobre 1843 la  
Commissione Superiore dichiarò liberi definitivamente i prigionieri, che lasciarono il carcere con l’obbligo di prendere domicilio nelle patrie rispettive”.                                                                                         La famiglia Settembrini non poté tornare a Catanzaro, ma dovette rimanere forzatamente a Napoli, dove, tre anni dopo, il patriota pubblicava clandestinamente il pamphlet “Protesta del popolo delle Due Sicilie” e fondava la nuova setta “Unità Italiana”. Il 23 giugno del ’49 veniva arrestato nuovamente e condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo, da scontale nell’isola di Santo Stefano. Le traversie continuavano a non concedere tregua a Gigia. A Napoli partecipò alla rete di solidarietà politica a sostegno dei prigionieri politici, entrò nel Comitato Politico Femminile e poi nel Comitato Politico Mazziniano Femminile fondati da Antonietta De Pace e da altre donne della nobiltà e della borghesia meridionale, incontrò cospiratori, esuli, ambasciatori, cardinali e lo stesso  Ferdinando II, al quale presentò una supplica per la libertà del marito. Per i suoi spostamenti non si fece scrupolo di spacciarsi per la moglie di un ufficiale di Nino Bixio; raggiunse il carcere di Santo Stefano per il collegamento con i detenuti politici, ai quali impartiva istruzioni con lettere scritte con inchiostro simpatico, per la preparazione di un piano di evasione, fallito nel 1855. Incontrò anche il conte Cavour. Si stupì non poco dell’inatteso omaggio coniugale della traduzione de “I Neoplatonici” di Aristeo di Megara. (7) Altro che “ospite-non protagonista della storia”! Il marito fu liberato al passaggio della truppe garibaldine, che sollevarono grande entusiasmo anche tra i lazzaroni e i contadini con la loro atavica fame di terra; lei tornò nell’ombra, secondo una persistente rappresentazione culturale, che contempla processi di autocancellazione per donne silenti e invisibili. La morte la colse a Napoli nel 1876, nell’Italia unita, nella quale, però, già si affacciava la questione meridionale.

Invisibili e silenti rimasero i rappresentanti dell’ultima plebe, poveri, incolti e dolorosamente scettici come il nostro prete-contadino, un sanfedista col mito del ribellismo, che........... cedette solo sotto tortura, senza poter lasciare traccia del suo desiderio di eroismo: egli merita le attenuanti generiche della storia, anche di quella scritta dai suoi nemici e dalle sue vittime, che gli hanno impedito l’inclusione finanche tra i “dissidenti del   
mito del Risorgimento”, nel contesto dell’aspra dialettica interna alle associazioni segrete. Uomo del popolo, aspirava a una generica liberazione, perorando la concessione della costituzione come strumento di contrasto all’assolutismo regio; educato a muoversi per ragioni immediate e contingenti, possedeva una visione localistica e ristretta del mondo. O forse no. Di sicuro fu vittima di un sistema ingiusto e della causa dei fautori degli interessi dell’élite del censo e della cultura, di quei galantuomini e intellettuali che in seguito invocheranno l’intervento dello Stato unitario per reprimere i moti contadini e per impiccare i briganti.                                                                                       
A Gigia, a suo marito e agli altri patrioti sono state intitolate piazze ed eretti busti marmorei; alcune spie di Radetzky sono state riqualificate come agenti segreti in servizio permanente e fatte rivivere nei loro “Epistolari”. Noi, più dimessamente, vogliamo inserire di diritto il nostro dolente compaesano nel registro dei “muti della storia”.

N O T E

(1)    Rassegna storica del Risorgimento, anno 1923, “Benedetto Musolino, Luigi Settembrini e
  Figliuoli della Giovane Italia”, pagg. 831-874.
(2)   Epistolario di Mazzini, VII, 267-268, da Londra, 21.11.1838, a Melegari: “i Padri della G.I. giurano per ultimo scopo l’abolizione di ogni proprietà e di ogni religione. Stolidi e iniqui”.
(3)    “Vescovi a Catanzaro: 1792-1851”, CZ,2012
Il congiunto  Raffaele Sculco era associato alla “baracca carbonara” della limitrofa Sellia e carbonaro era anche l’arciprete di Simeri Rosario Benincasa. La morte della madre (all’età di 36 anni)  è registrata nei libri parrocchiali di Crichi dell’anno 1816, mentre il padre Domenico morì nel 1808, all’età di 85 anni. Nicola Barbuto aveva un fratello di sola madre (e di padre ignoto) di nome Tommaso, nato nel 1803, al quale la polizia borbonica avrebbe promesso l’esonero dalla leva militare, per i servigi del fratello. Marcello  Giovene, (1)   Simeri e i suoi casali”, riporta altre confidenze del parroco A. Scalise: la sigla GL delle Ricordanze non indicherebbe il canonico Gaetano Larussa ma Giuseppe Lice, il professore crichese collega di Settembrini al R. Liceo di Catanzaro.
(2)   Per la solita tradizione orale, i volti raffigurerebbero personaggi reali del paese, in una sorta di allegoria dell’espiazione della colpa. Lopez era anche il cognome della madre del Barbuto.
(3)   Atti del convegno di Pizzo Calabro del 1985.
(4)   Storia amorosa di 2 giovani greci,che Benedetto Croce definì “lubrico e malsano errore letterario del Venerato Maestro”. 

riceviamo e pubblichiamo

                                                                          Sellia racconta il Comprensorio

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