Calabria
e Risorgimento
Il
prete sicofante e le patriote “invisibili”
di
Marcello Barberio
Forse per tacitare il
disagio della condivisione della cittadinanza con un personaggio che ha
lasciato al paese natale l’infamante contumelia dei testimoni falsi per antonomasia, ho scritto più volte -
seguendo l’intreccio delle Ricordanze
della mia vita - dell’arresto a Catanzaro, nel 1839, di
Luigi Settembrini, in seguito alla
delazione alla polizia borbonica del prete di Crichi, Nicola Barbuto. Preoccupato
d’indagare le ragioni vere del tradimento del mio compaesano e le eventuali ricadute
del suo gesto sulle vicende del Risorgimento meridionale, ho glissato sui personaggi
femminili della vicenda, già condannati alla invisibilità dalla retorica ufficiale e dalle narrazioni canoniche,
in quanto personaggi minori, a latere dei loro uomini. Ed è stato così anche
per Raffaela
Luigia Faucitano Settembrini, destinata a una vita claustrale
e invece andata sposa a 17 anni al giovane professore di retorica e greco del Regio
Liceo di Catanzaro.
Nel ’38 ispirò al marito il dramma “La donna del proscritto”, che non venne rappresentato
nell’unico teatro cittadino, per la ferma e strumentale opposizione dell’intendente,
il principe di Giardinello. Nel ’39 mise
in guardia il marito alla vista del prete traditore; al quinto mese di
gravidanza non esitò a raggiungere Settembrini a Napoli in occasione del suo
primo arresto, pretese di parlare col ministro della polizia Francesco Saverio
Del Carretto, con alti prelati e intendenti, andò fino all’isola di Santo
Stefano dove il marito scontava la sua seconda condanna, in seguito alla pubblicazione
clandestina del pamphlet “Protesta del
popolo delle Due Sicilie”e alla fondazione della setta Unità Italiana. Eppure la storiografia ufficiale la ricorda solo
come custode dell’epistolario del marito e per le sue lettere intercettate
dalla polizia borbonica nel carcere napoletano di Santa Maria Apparente nel
1842 e indirizzate a Benedetto Musolino.“ Così passarono gli anni 1837 e 1838”. - racconta Settembrini . “ Ma tosto ci fu un traditore. Un prete mio amico G(aetano)L(arussa) volle che io conoscessi il parroco di un paesello chiamato Crichi, col quale ei mi disse che s’erano allevati insieme in seminario, e che era liberale e bravo, e si chiamava Nicola Barbuto. Quando io vidi questo parroco Barbuto sentii certa ripugnanza per lui, e mia moglie con quel fino senso che hanno le donne lo temeva come un nemico, ch’egli era brutto e nero come un topo, e aveva il labbro leporino: pure io l’accolsi e gli feci dare un catechismo. Io gli diedi una lettera per Raffaele Anastasio, farmacista in Cosenza, e una pel Musolino in Napoli [ …] La notte dell’8 maggio 1839 mentre io dormivo mi fu accerchiata la casa da gendarmi e poliziotti..” E fu tradotto a Napoli.
Ricorda Giuseppe Paladino (1) che nel Mezzogiorno operavano circa 12.000 convertiti alla setta carbonara I Figlioli della Giovane Italia, fondata nel ’32da Benedetto Musolino di Pizzo. “ Il parroco Nicola Barbuto di Crichi-Simeri dette all’Intendente una copia del noto catechismo, un foglio con il motto d’ordine e l’emblema dell’associazione, senza rivelare in
principio da
chi aveva ricevuto quelle carte. Messo alle strette, indicò poi un Francesco
Marino di Albi, nome affatto immaginario, e aggiunse, per deviare l’attenzione
dell’autorità, che la setta era più diffusa in provincia di Cosenza.
Nicola Barbuto (di Alfredo Piacente)
Ma l’Intendente ve lo mandò con l’incarico di
far ricerche e il prete, dopo aver lasciato sperare buoni frutti dalla sua
missione, tornò senza aver concluso nulla. Queste contraddizioni e
tergiversazioni misero in sospetto il principe Giardinelli, che, dopo aver
consumato varii mesi inutilmente, si persuase che il poco degno sacerdote, essendo
riuscito a impadronirsi delle carte, aveva immaginato un piano di cospirazione
e tentativo d’ingannarlo, sicché decise di arrestarlo e farlo punire col dovuto
rigore come falso denunziante. In quel mentre però venne dal ministero
informato della faccenda, l’ordine d’inviarlo nella capitale. Le rivelazioni
del Barbuto apparvero alla polizia centrale che sapeva come stavano le cose da
altre fonti, sotto una luce ben diversa da quella, in cui potevano presentarsi
alle autorità provinciali ignare di molti fatti. Il parroco fu condotto a
Napoli nell’aprile 39 e sia che si sentisse più sicuro da eventuali vendette
per le sue rivelazioni, sia che il carcere gli incutesse paura, disse tutto.
Non Francesco Marino, ma il Settembrini era stato il suo iniziatore; egli
stesso avevagli dato, quando si era messo in via per Cosenza, una lettera di
presentazione e raccomandazione per Raffaele Anastasio, farmacista in quella
città e organizzatore della setta, e un’altra per il Musolino; lettera
che il prete non aveva consegnato ai destinatarii e che confessò di possedere
ancora nella sua casa di Crichi-Simeri”. Settembrini, Musolino e gli altri furono
tradotti al carcere di Santa Maria Apparente, a loro spese, “più fortunato
l’Anastasio, messo a tempo sull’avviso, riuscì a darsi alla fuga” […]
Settembrini negò di conoscere Barbuto e Anastasio”. Racconta Paladino.
Luigi Settembrini
Ma passiamo al processo dei cospiratori calabresi,
seguendo l’orditura del Paladino:
“Settembrini imperniò il proprio
sistema difensivo nel dipingere a foschi colori quelli che lo accusavano. Per
Barbuto ebbe buon gioco a farlo dalla circostanza che il vescovo e un altro
prelato dettero sfavorevoli informazioni di lui, e il primo si rifiutò di
ascoltarlo allorché intendeva denunziare il buon professore di eloquenza”.
Per Settembrini: ”Sul
Barbuto, l’istruttore ebbe da Catanzaro le più fosche informazioni, anche dal
vescovo, che lo diceva
indegno sacerdote e sospeso a divinis; ed altri lo
accusarono di brutte infamie, che non voglio ripetere, e chiunque fu dimandato
di lui, lo dipinse come un ribaldo[..]Quando si fu dichiarato denunziante,
ognuno gli calò la mano addosso. Per non tornare più su di lui, dirò sin da ora
che egli, sopraffatto dal pubblico disprezzo e dallo sdegno anche della sua
famiglia, ammalò e morì poco dopo che fu fatta la causa”. La nemesi della borghesia
e del clero carbonari.
Dagli studi di mons. Antonio Cantisani (3) risulta
che, in quegli anni, era vescovo di nomina regia di Catanzaro mons. Matteo Greco, di sicura
fede borbonica, mentre “ sempre consistente era il gruppo di carbonari e di
altri patrioti della nobiltà, in particolare intellettuali che nutrivano idee liberali,
anche se da un punto di vista formale erano molto deferenti verso i Borbone”.
La città contava 14.000 anime, distribuite in 10 parrocchie, mentre le 1.300
anime di Simeri e di Crichi erano
affidate alle cure di 14 preti. Secondo Umberto Caldora (“Calabria Napoleonica”),
la regione contava poco meno di 800.000 abitanti, con 4719 preti, 701 frati,
609 monache, 356.000 campagnoli, 18.000 mendichi di cui 14.263 femmine. Con l’enciclica “Traditi
Humilitati Nostrae” del 1829, Pio VIII aveva condannato le società segrete, nemiche di Dio
e dei prìncipi, dedite a procurare la rovina della Chiesa, a minare
Benedetto Musolino
lo Stato e a sovvertire
l’ordine universale, per cui “con tutto il Nostro zelo, vigileremo perché la
Chiesa e la società civile non ricevano alcun danno dalla cospirazione di tali
sette”. Già nel 1821, Pio VII, con la bolla “Ecclesiam a Jesu”, aveva proibito “la predetta società dei
Carbonari o con qualunque altro nome chiamato”, concludendo: “A nessuno sia
lecito contraddire con
temeraria arroganza questo testo della Nostra
proibizione e interdetto”.
Secondo una consolidata tradizione locale, il prete delatore sarebbe
morto in seguito ad una visita del protomedico di Catanzaro, che era accorso a
Crichi per curarlo: il dottore non aveva ancora varcato il fiume Alli che le
campane del paese già suonavano a morte. Nel Liber Mortuorum della parrocchia di
Crichi, retta da don Domenico Sculco (4), risulta strappata la pagina dov’era
stata registrata la morte di Barbuto: una mano pietosa deve aver pensato di occultare
così la prova di una pretesa onta collettiva.
L’Archivio di Stato di Catanzaro, fondo Intendenza, custodisce “L’elenco dei giovani soggetti alla leva
dell’anno 1824”, dove sono riportate distintamente le generalità dei
coscritti di Simeri e di Crichi: al n° 65 di Crichi è annotato D. Nicola
Barbuto, nato il 25 dicembre 1806, seminarista in Catanzaro, figlio di Domenico
e di Diana Lopez.
La chiesa parrocchiale di Crichi custodisce una bella
tela raffigurante “Scene delle anime del
Purgatorio”(5), con la scritta “a
devozione di Nicolino Lopez”, anno 1849.
“Il prete rivelatore era
un uomo perduto e perciò il vescovo erasi rifiutato di ascoltarlo”, conferma
Paladino, sorvolando sui presumibili conflitti dell’uomo e anche sulla
complessità della situazione politica. Nicola Barbuto, nell’aprile del ’39, fu “condotto a Napoli, al sicuro da eventuali
vendette per le sue rivelazioni” e sottoposto a pesante interrogatorio,
con l’eventualità del carcere che gli provocava grandissima paura, anche perché
al suo primo arresto a Catanzaro, su ordine del Giardinello, era stato “punito col dovuto rigore”, cioè con la
tortura. Per Settembrini, invece: “Non timore di Dio, né fedeltà al principe,
ma il desiderio di farsi ricco e potente”.
“Settembrini - prosegue
Paladino - insistette sulla falsità
delle dichiarazioni fatte dal Barbuto, attribuendogli la contraffazione della
sua scrittura. Dette la colpa della disgrazia toccatagli al principe di
Giardinelli e, quando si lessero le deposizioni dei testimoni, che lodavano
l’onestà di sua moglie, esclamò: “E’
questo il mio peccato!”. Ma davvero le sue sventure erano da mettere in
diretta relazione con l’onestà di sua moglie? Ci piace pensare che quell’esclamazione
celasse piuttosto l’orgoglio per la riconosciuta virtù della sua Gigia. E non
altro.
Sappiamo che venne assolto, unitamente al
Musolino, e posto in libertà provvisoria, con la concreta possibilità per la polizia di trattenerli in
carcere per altri due anni. Gigia non si perse d’animo, anche fuori dagli stereotipi del tempo, e
riuscì a farsi ricevere dal re e dal ministro Del Carretto, per protestare
contro l’ingiusta e arbitraria carcerazione del marito e di Musolino. Ma senza
risultato.“Nel mese di marzo del ’42 - aggiunge Paladino - “fu scoperta per caso una corrispondenza tra Benedetto Musolino, che si firmava Pollak, e la moglie del Settembrini, detta Salica [..] La polizia volle interpretarle come documento di una relazione amorosa”, la quale, a dire del ministro Del Carretto “mostrava a chiare note in quale conto tener si dovessero le tante dicerie nella difesa della causa sull’inquisizione pur fatta in Catanzaro per debilitare le pruove irrefrangibili del processo, secondando così tutti i maneggi per potenti fini, onde la causa e i rei avessero buon vento, mentre in realtà, se non si vuole credere che il giovane calabrese fosse così astuto da celare sotto un linguaggio apparentemente innocuo sentimenti non lodevoli, si tratta di lettere di pura amicizia, che i due si scambiavano di tanto in tanto come ricordo della fraternità contratta negli anni giovanili. Il Settembrini vi è nominato col nomignolo di Omar. Finalmente il 25 ottobre 1843 la Commissione Superiore dichiarò liberi definitivamente i prigionieri, che lasciarono il carcere con l’obbligo di prendere domicilio nelle patrie rispettive”. La famiglia Settembrini non poté tornare a Catanzaro, ma dovette rimanere forzatamente a Napoli, dove, tre anni dopo, il patriota pubblicava clandestinamente il pamphlet “Protesta del popolo delle Due Sicilie” e fondava la nuova setta “Unità Italiana”. Il 23 giugno del ’49 veniva arrestato nuovamente e condannato a morte, pena poi commutata in ergastolo, da scontale nell’isola di Santo Stefano. Le traversie continuavano a non concedere tregua a Gigia. A Napoli partecipò alla rete di solidarietà politica a sostegno dei prigionieri politici, entrò nel Comitato Politico Femminile e poi nel Comitato Politico Mazziniano Femminile fondati da Antonietta De Pace e da altre donne della nobiltà e della borghesia meridionale, incontrò cospiratori, esuli, ambasciatori, cardinali e lo stesso Ferdinando II, al quale presentò una supplica per la libertà del marito. Per i suoi spostamenti non si fece scrupolo di spacciarsi per la moglie di un ufficiale di Nino Bixio; raggiunse il carcere di Santo Stefano per il collegamento con i detenuti politici, ai quali impartiva istruzioni con lettere scritte con inchiostro simpatico, per la preparazione di un piano di evasione, fallito nel 1855. Incontrò anche il conte Cavour. Si stupì non poco dell’inatteso omaggio coniugale della traduzione de “I Neoplatonici” di Aristeo di Megara. (7) Altro che “ospite-non protagonista della storia”! Il marito fu liberato al passaggio della truppe garibaldine, che sollevarono grande entusiasmo anche tra i lazzaroni e i contadini con la loro atavica fame di terra; lei tornò nell’ombra, secondo una persistente rappresentazione culturale, che contempla processi di autocancellazione per donne silenti e invisibili. La morte la colse a Napoli nel 1876, nell’Italia unita, nella quale, però, già si affacciava la questione meridionale.
Invisibili e silenti rimasero i rappresentanti dell’ultima plebe, poveri, incolti e dolorosamente scettici come il nostro prete-contadino, un sanfedista col mito del ribellismo, che........... cedette solo sotto tortura, senza poter lasciare traccia del suo desiderio di eroismo: egli merita le attenuanti generiche della storia, anche di quella scritta dai suoi nemici e dalle sue vittime, che gli hanno impedito l’inclusione finanche tra i “dissidenti del mito del Risorgimento”, nel contesto dell’aspra dialettica interna alle associazioni segrete. Uomo del popolo, aspirava a una generica liberazione, perorando la concessione della costituzione come strumento di contrasto all’assolutismo regio; educato a muoversi per ragioni immediate e contingenti, possedeva una visione localistica e ristretta del mondo. O forse no. Di sicuro fu vittima di un sistema ingiusto e della causa dei fautori degli interessi dell’élite del censo e della cultura, di quei galantuomini e intellettuali che in seguito invocheranno l’intervento dello Stato unitario per reprimere i moti contadini e per impiccare i briganti.
A Gigia, a suo marito e agli altri patrioti sono state
intitolate piazze ed eretti busti marmorei; alcune spie di Radetzky sono state riqualificate
come agenti segreti in servizio permanente e fatte rivivere nei loro “Epistolari”. Noi, più dimessamente, vogliamo
inserire di diritto il nostro dolente compaesano nel registro dei “muti della storia”.
N
O T E
(1) Rassegna storica del Risorgimento, anno 1923,
“Benedetto Musolino, Luigi Settembrini e
Figliuoli della Giovane Italia”,
pagg. 831-874.
(2) Epistolario
di Mazzini, VII, 267-268, da Londra, 21.11.1838, a Melegari: “i Padri della
G.I. giurano per ultimo scopo l’abolizione di ogni proprietà e di ogni
religione. Stolidi e iniqui”.
(3) “Vescovi
a Catanzaro: 1792-1851”, CZ,2012
Il congiunto Raffaele Sculco era associato alla “baracca
carbonara” della limitrofa Sellia e carbonaro era anche l’arciprete di Simeri
Rosario Benincasa. La morte della madre (all’età di 36 anni) è registrata nei libri parrocchiali di Crichi
dell’anno 1816, mentre il padre Domenico morì nel 1808, all’età di 85 anni.
Nicola Barbuto aveva un fratello di sola madre (e di padre ignoto) di nome
Tommaso, nato nel 1803, al quale la polizia borbonica avrebbe promesso l’esonero
dalla leva militare, per i servigi del fratello. Marcello Giovene, (1) “Simeri e i suoi casali”, riporta altre confidenze
del parroco A. Scalise: la sigla GL delle Ricordanze
non indicherebbe il canonico Gaetano Larussa ma Giuseppe Lice, il professore
crichese collega di Settembrini al R. Liceo di Catanzaro.
(2) Per
la solita tradizione orale, i volti raffigurerebbero personaggi reali del
paese, in una sorta di allegoria dell’espiazione della colpa. Lopez era anche il
cognome della madre del Barbuto.
(3) Atti
del convegno di Pizzo Calabro del 1985.
(4) Storia
amorosa di 2 giovani greci,che Benedetto Croce definì “lubrico e malsano errore
letterario del Venerato Maestro”.
riceviamo e pubblichiamo
Sellia racconta il Comprensorio
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