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sabato 21 ottobre 2023

La talentuosa studentessa di Soveria Simeri Rossana Talarico è la vincitrice del Premio letterario Green Ammi sul tema “Una sola Terra”.

 


Ce l’ha fatta con i versi intitolati “Il respiro del caso”. Rossana Talarico è la vincitrice del Premio letterario Green Ammi (Associazione mogli medici italiani) sul tema “Una sola Terra”. La talentuosa studentessa dell’Istituto guidato dalla dirigente Filomena Rita Folino, il liceo scientifico “L. Siciliani” di Catanzaro, vive a Soveria Simeri. E la sua passione per la scrittura è nota a tutti. I suoi esordi risalgono a quando aveva appena 13 anni. Dopo la collaborazione con testate web per Calabria, si è impegnata nella composizione di testi che hanno raccolto prestigiosi consensi: nel 2021 ha conquistato il primo posto nel premio letterario “D o n’t like silence”(con un componimento contro il bullismo e ogni forma di violenza), vincendo anche il premio nazionale “Mario Lodi” con un elaborato su “La scuola che vorrei .” La diciassettenne di Soveria Simeri questa volta è riuscita ad attestarsi al primo posto della prima edizione del Premio letterario Green Ammi rivolto a studenti delle scuole superiori di II grado del capoluogo «con l’obiettivo di sensibilizzare sul tema della salvaguardia e della tuteladell’ambiente». 

A seguire l'articolo tratto dalla Gazzetta del Sud oggi in edicola.

venerdì 3 aprile 2020

Crisobolli e Diplomi di Ruggero "PER IL PATIRION E SANTA MARIA DEL BOSCO" di Marcello Barberio


Sappiamo che la Crisobolla del 1082 è un editto dell’imperatore Alessio I Comneno di riconoscimento dei diritti commerciali di Venezia in Oriente e che l’impressione in calce del suggello d’oro indica l’importanza attribuita al documento dalla cancelleria di Costantinopoli, diversamente dal molibdobullo di piombo della tradizione bizantina. Durante il medioevo, anche le corti occidentali fecero largo uso delle bolle dei sovrani e del papa per l’emanazione di Diplomi e di documenti ufficiali, come testimoniato dalle varie raccolte paleografiche di codici greci e latini (1).                                                                                                           In questa sede c’interessiamo del Barberiano latino 3205 dell’Archivio Segreto Vaticano, attinente alla Carta Rossanese del 1104 e a tre Diplomi (due del conte Ruggero e uno del vescovo di Squillace dell’anno della creazione del mondo 6600, cioè del 1092 d. C). Il codice 3205 è un sigillo di Ruggero II conte di Calabria e di Sicilia, concernente una munifica donazione di beni a favore di Bartolomeo da Simeri, archimandrita del monastero basiliano del Patirion di Rossano (fondato dal beato Nisone di Simeri e posto sotto il patronato di Adelasia del Vasto, moglie del conte), che Giuseppe Amato, nel 1884 (2) definiva “il semenzaio dei più illustri calabresi, per dottrina, per dignità ecclesiastiche e per santità”. L’igumeno Bartolomeo e i suoi successori vi istituirono un celebre scriptorium di miniatura, un centro di compilazione dei codici e una ricchissima biblioteca, accresciuta dalle generose donazioni del basileus Alessio I e dalla basilissa Irene Ducas, su sollecitazione dell’alto dignitario di corte, l’eunuco calabro-greco Basilio Calimeris o Mesimerio.  Nel secondo volume degli Atti dei Pontefici Romani (3), a pag. 797, è riportata la lettera di papa Pasquale II all’imperatore Alessio Comneno, con la quale si lodava l’opera di collaborazione a favore delle due Chiese (greca e latina), come ribadito dal nunzio imperiale Basilio Mesimerio (di Simeri, come Bartolomeo): “Et fedelissimi ac sapientissimi nuntii vestri, B. Mesimeri relatio nos plenius certificavit”. Intanto, nella badia rossanese, con la santità dei costumi, regnava anche l’abbondanza dei beni materiali, tanto da provocare la gelosia dei benedettini di Mileto di rito latino, i quali accusarono Bartolomeo si eresia, di peculato, di appropriazione indebita e fraudolente dei lasciti e delle donazioni, oltre che di nepotismo (nel Patirion dimoravano stabilmente i familiari del santo). L’archimandrita fu assolto dalla corte di Ruggero a Messina e posto alla guida del nuovo monastero del San Salvatore e degli oltre quaranta monasteri basiliani di Calabria.  Il prof. Sapia ha focalizzato la sua attenzione principalmente sull’importanza linguistica del documento in esame (pubblicato nel 1662 da Ferdinando Ughelli”, nel IX tomo della sua Italia Sacra), “di un latino corrottissimo, che accoglie alcuni termini volgari e con un lungo brano quasi totalmente volgare, che ha fatto ritenere alla maggior parte degli studiosi di trovarsi dinanzi ad uno dei primi e più importanti documenti della lingua italiana”.  Analogo giudizio era stato espresso da Ludovico A. Muratori, da Ernesto Monaci, da Pratesi, Lazzari, Ugolini, Monteverdi e, con riserve, da diversi studiosi stranieri (4).  Per l’approfondimento dei “primordi e delle vicende del dialetto calabrese” non possiamo prescindere dall’Appendice al Vocabolario di Luigi Accattatis del 1895 e dalle comparazioni con alcuni “penitenziali” medievali, ripresi in “Una formula di confessione in volgare antico” (Civiltà Cattolica, 1936), del Codice Vallicelliano B.63, che P. Pirri ha messo in relazione col penitenziale del Codice Cassinese 451 del X secolo, nel quale si raccomandano “parole rustiche nella confessione  dei peccati”.
San Bartolomeo da Simeri (5)
Nel 1960, Evelyn Mary Jamison rinveniva nella Biblioteca Vaticana la copia della Carta Rossanese utilizzata da Ferdinando Ughelli, che, a sua volta, era un’altra copia del 1627 del notaio napoletano Silverio Ramundo, il quale aveva trascritto l’atto di donazione del 1317 del conte di Corigliano. Giovanni Sapia, Antonio Piromalli e altri studiosi hanno sottoposto a un approfondito esame stilistico e filologico la parte volgare della “Carta”, pervenendo alla conclusione che si tratta della descrizione di alcuni beni del Patirion in territorio di San Giorgio Albanese, in un raro esempio di traslitterazione in calabrese del testo greco del 1130. Una testimonianza del modo di parlare al popolo da parte dei ceti colti e della burocrazia, un codice di passaggio (traduzione dal colto al volgare) per rendere accessibile al popolo la lingua “altra”, in aderenza con le stesse indicazioni del Concilio di Tours dell’813: “Si cerchi di tradurre in modo comprensibile le omelie in lingua romana rustica, affinché più facilmente tutti possano intendere quel che sia detto”. Nel documento esistono “calchi dal greco, prestiti dal latino e mescolanze con l’italiano letterario”. Così afferma Antonio Piromalli, fornendoci una parziale traduzione fonetica del parlato volgare: “kum kuesto ordinamu alli monaci iterum sekundarie a tutti li vellani de Koriano et in altro loco, li recettati allo vostro loko coè de Fraumund, et li òmeni kuale recettati kuali sono vostri at kualùnkata loko avèssero loro stabbili, àbbiano kuesti stabeli semper sine impedimento … konfirmato kum lo presente sòlito sigillo; sigillato kum lo àureo nostro sigillo dato alla sopraddetta fraternitate”. E’ un esempio concreto delle finalità giuridico-notarili, cioè delle   ragioni pratiche e funzionali dell’uso del volgare, secondo i due distinti filoni che si andavano sviluppando: i placiti (testimonianze rese dai popolani in tribunale) e le laude religiose.  Tra i primi è famoso quello campano del 960: “Sao ke kelle terre, per kelli fini que ki contene, trenta anni le possette Sancti Benedicti”. La lauda più ricordata è il Planctus Virginis di Jacopone da Todi: “Te portai nillu meo ventre. Quando te beio, ploro presente. Nillu teu regnu àgime a mente”. Ovviamente il documento ha una sua particolare importanza dal punto di vista linguistico, ma non aggiunge molto alla storia del ricchissimo cenobio patiriense, al quale, nel 1105 papa Pasquale II concedeva il privilegio di abbatia nullius, di “nessuna diocesi”, perché sottratta alla giurisdizione del vescovo e posta sotto l’esclusiva dipendenza dalla Sede Romana. Il privilegio di esenzione era stato richiesto da Ruggero II a favore dell’abate  Bartolomeo e papa Pasquale II era stato ben lieto di concederlo al monastero della Neo Odigitria e alle sue chiese figliali, svincolandoli dalla giurisdizione del vescovo di Rossano, non solo come atto di gratitudine verso la corte normanna, ma soprattutto per  agevolare la ripresa di più amichevoli relazioni con la Chiesa d’Oriente, dopo lo scisma di Santa Sofia del 1054, mediante l’opera dei monaci calabro-greci. E tanto in conformità con l’alleanza politica sancita tra il Papato e la Corte Normanna nei due sinodi di Melfi del 1059 e del 1089, nei quali papa Nicolò II e poi Urbano VII avevano conferito il possesso feudale a Roberto il Guiscardo (e al suo successore Ruggero I), accordando il titolo di duca di Calabria, Puglia e Sicilia. L’obbiettivo dichiarato del papa era quello della sottomissione a Roma, attraverso una progressiva assimilazione del potente e assai influente clero greco, di cui Bartolomeo era sicuramente il più autorevole rappresentante, dopo la morte di san Nilo, fondatore della badia di Grottaferrata. I Normanni, da parte loro, potevano così esercitare la prerogativa dell’ingerenza (non ancora dell’investitura) nella elezione dei vescovi, di entrambi i riti. Della bolla papale si ha testimonianza storica  nel codice greco vaticano 2050, un rotolo  in pergamena di 117 fogli, scritto perpendicolarmente “a colonne”,  proveniente dal Patirion, con il colofone di chiusura del copista che recita: “Il presente libro degli asceti di San Basilio fu terminato l’otto agosto, martedì alle ore 15, dell’anno 6213, nel quale il SS Papa Pasquale concesse al nostro Padre Bartolomeo un privilegio di esenzione a favore del suo Santo Monastero” dedicato alla Madonna Odighitria o Deipara di Costantinopoli.

                               Bulla di Papa Pasquale II
Nel 1813, Giuseppe Genovesi illustrava “Un greco Diploma che si conserva nell’Archivio Generale del Regno, proveniente dal monastero di S. Stefano del Bosco, assieme ad altri tre molibdobolli, di cui due portano il sigillo di Ruggero II conte di Calabria e Sicilia e uno del vescovo di Squillace Teodoro Symerio (stimato abbreviativo di Mesymerio), la cui formula ordinaria  inizia col nome di colui che l’ha fatto: “Anno 6600 die 7 mensis Decembris, indictione 15, Theodorus Divina Miseratione Episcopus Castri Squillacensis, Styli, et Tabernarum, et Syncellus Mesimerius”.              Tale sigillo, a pagina 32, contiene l’annotazione dell’illustrazione dell’antico Diploma, a proposito del quale il Mobillon ricorda che anticamente i vescovi solevano imprimere nei sigilli il proprio nome, quella della propria città e quello del patrono della Chiesa. Nel sigillo sono presenti tutti e tre i nomi: quello di Maria SS Protettrice e quello di Teodoro Symerio, cioè di Simeri.  E’ scritto in greco nella parte alta e iniziale della pergamena e tradotto in basso in latino; porta la data della sua emissione, corrispondente all’anno 1092. Il Diploma costituisce l’atto di fondazione della Chiesa di San Bruno, eretta sul modello della Grande Chartreuse di Grenoble e consacrata nel 1094 alla presenza di Ruggero. Nel 1096 moriva il quinto vescovo squillacese di nazionalità greca, Teodoro Mesimerio, che “le antiche memorie il lodano come uomo di santi costumi, amico e generoso benefattore di San Brunone di Colonia, a favore della cui Certosa non dubitò di cedere, in forma molto cortese, parte della sua giurisdizione, secondo ché vedemmo nel documento di un suo decreto” (6). Gli succedette il latino canonico di Mileto Giovanni De Niceforo, per espressa volontà di Ruggero, di San Bruno e di papa Urbano II. La diocesi rilatinizzata nelle strutture ecclesiastiche e oramai “avulsa dal Trono di Costantinopoli”, comprendeva diverse abbazie e possedimenti nei territori di Squillace, Catanzaro, Stylo e Antistylo, Satriano, Taverna, Simmari (7), Salìa, Barbaro, Badolato, S. Caterina, Santa Maria della Rokella apud Palaeopolim, S. Senatore, S. Gregorio, Rocca de Cathantiaco, Castel di Mainardo e di Cuccolo. E Palepoli era uno dei tre corpi di città dell’antica Trischene col suo controverso vescovato, la cui sede, nel 1122 papa Callisto II trasferì nella cattedrale di Catanzaro (e non a Taverna) con uno scorporo dalla diocesi di Squillace.                                                                                                                                                           Nel 1130 Ruggero II veniva incoronato re di Sicilia, Calabria e Puglia, da papa Anacleto; nel ’94 l’imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico VI di Hohenstaufen, conquistava il Regno di Sicilia e inaugurava la dinastia sveva, che avrà il suo culmine politico in Federico II, universalmente noto come Stupor Mundi.       
                                                                                           laghetto di Serra San Bruno                                                                                                                                                        
Sulla Certosa si rinnovano ancora oggi storie e leggende, più o meno fantasiose e suggestive, come quella dell’aviatore americano che nel 1945 avrebbe sganciato la.........