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domenica 23 dicembre 2018

La Storia di Rosina Lupia Poetessa contadina analfabeta di Belcastro Una donna bellissima e carismatica protagonista delle lotte per l’occupazione delle terre incolte del Marchesato Crotonese e dei territori ionici.


Solo recentemente l’eclettico Franco Santopolo mi ha fatto conoscere la storia di Rosina Lupia
di Belcastro (cz), poetessa-contadina senza scuola, protagonista delle lotte per l’occupazione delle
terre incolte del Marchesato Crotonese e dei territori ionici contermini durante l’ultimo dopoguerra,
nonché interprete originale e profonda della cultura popolare identitaria.
“Una donna bellissima e dotata di grande carisma, intelligenza e sensibilità, inventava poesie e canzoni”,
che dettava a un bambino, sottraendole così all’oblio del tempo, ma non all’incuria degli uomini,

soprattutto dei cultori della retorica contadina e dei valori naturali e primitivi, come Curzio Malaparte e
Giovanni Papini: “mi sento profondamente d’accordo con le vacche e con la nostra cara e buona lingua
di bifolchi e di genii”.                                                                                        
Rosina partiva dal gradino sociale più basso, essendo donna, povera e analfabeta, puntualizza Santopolo,
integrando quanto scritto da Alberto Iacoviello sull’Unità il 31 marzo del 1950: “E’ una specie di genio
contadino, parla un linguaggio che contiene la saggezza di secoli e la verità comune a migliaia di
contadini”. Una ribelle (E.J.Hobsbawn), non il buon selvaggio o il genius loci del folclore locale, da
rinchiudere nello spazio sociale e letterario del caso singolare. Rosina è poeta organico del mondo
contadino calabrese, cantora della giustizia e della fratellanza, dei valori identitari della cultura
subalterna e della tragica regressione del Sud negli anni del boom economico del Nord, che ispirava
a P.P. Pasolini il famoso epigramma: “chi era coperto di croste è coperto di piaghe/ il bracciante
diventa mendicante/ il napoletano calabrese/ il calabrese africano/ l’analfabeta una bufala o un
cane”. Una figura marginale nella gerarchia della società locale   –
subalterna ed esclusa – che riesce a conquistare una sicura centralità ed evidenza sociale, col suo
carico eversivo rivoluzionario (donna senza marito, povera e senza scuola) di soggetto organico
e vivo di un collettivo-casa, vissuto come un’altra religione del suo tempo. A metà degli anni ’60
le venne espropriata parte della sua quota dell’Ovs (Opera valorizzazione della Sila), per la
realizzazione di un progetto di ammodernamento della strada provinciale; per Rosina fu uno
smacco e una vendetta politica, per cui non esitò ad adire fruttuosamente le vie
legali (Pretura di Cropani) e a rivolgersi direttamente al Presidente della Repubblica
, on. Giuseppe Saragat, lanciando nel contempo strali e ammonimenti ai suoi avversari,
sul presupposto che “…. cu’ vö mala a mia/gira a nu fusu e non conchjuda nenta!”


ROSINA AL PRESIDENTE
Mio caro e bene amatu Presidenta,
ti scrivu chista littara ‘e luntanu,
ppe’ mma ti dicu ca c’è nu pezzenta
chi vö ppe’ ma mi futta de stramanu,
                                                     nu pezzareddu ‘e terra d’o ponenta
ma fa ‘na strata cchi scinda a lu chjianu.
E’ megghjiu ma ‘nterveni, Presidenta,
e ma ci dici, a chistu sacristanu,


nomma fa u’ fissa, ca ddocu, comu nenta,
Peppinu caru, cu’ vö mala a mia,
gira a nu fusu e non conchjuda nenta!
A chistu puntu, aju fiducia ‘e tia
cchi sì cumpagnu e puru Presidenta.
Chiudu e mi firmu. Rosina Lupia.


C’informa Santopolo: “Rosina venne da me perché le scrivessi, secondo il senso da lei voluto, una lettera
di accompagnamento con la quale restituiva al Presidente” la risposta presidenziale che la Prefettura
intendeva cestinare.


IL PRESIDENTE A ROSINA
Cara Rosina, ti ringrazio assai.
Ti mandu chista littara firmata,
ccussì, si hai ‘e risolvira ‘ncunu guai,
mò ti po’ dira propriu sistemata.
Va’ du’a u’ Prefettu e portaci ‘sta mia
E aspetta ‘na risposta già in giornata.
E poi ci dici ca sì Rosa Lupia
e voi chista faccenda sistemata.
Spero sarai contenta e soddisfatta
e ch’a cosa si sistema. Ppe’ tramenta
fa finta ch’esta già ‘na cosa fatta.
Chista, ppe’ mia, è robbicedda ‘e nenta:
‘nta ‘na menz’ura fatta e disfatta!
Ti mando il mio saluto. Il Presidenta.


ROSINA AL PRESIDENTE
Carissimo e stimato Presidenta,
ti tornu chidda littara firmata,
ca tantu a firma tua non serva a nenta
e vala, forsi, menu ‘e ‘na cacata.
‘U segretario do’ Prefettu toi,
mi dissa ca finia cestinata
e ca ‘sti littiri, sempra, prima o poi,
finiscianu a lu cessu pp‘a stujata.
Tu sì ‘n amico ma non sì sergenta  
E cunti quantu nu piruna ‘e lettu.
Cchi cazzu voi? Sì sulu Presidenta,
‘on po’ cuntara quantu nu Prefettu
e ‘a vicia tua esta nu ragghjiu ‘e mulu.
Tanti saluti e va’ pigghjalu ‘n culu!


Il prodigio della poesia di Rosina evoca componimenti più diffusi e persistenti a livello popolare come
Lettera al Padreterno di Mastro Bruno Pelaggi e La preghiera del Calabrese al Padre Eterno
contro i Piemontesi di Antonio Martino. Quasi tutta la poesia dialettale, infatti, rappresenta il sentire
comune di un popolo, in particolare  quella del genere narrativo-burlesco e delle rime facete
(come Jugale di Antonio Chiappetta, Statte tranquillu di Ciardullo e Prima cantu e doppu cuntu
di Giovanni Patari alias Alfio Bruzio de U monacheddu) e quella delle opere satiriche che evolvono
felicemente in lirica, come in Giovanni Conia, Domenico Piro, Vincenzo Ammirà, Vittorio Butera e
Michele Pane. Si è anche parlato di poesia delle origini della lingua e delle problematiche connesse
alla
trascrizione delle testimonianze orali, col rischio della contaminazione della forma, dei contenuti
e finanche dello stile delle produzioni letterarie che eccedono di molto il rozzo ingegno contadino.  
 Ci rassicura il fatto che “i sonetti rispettano interamente il mandato di Rosina”, conservando una
grande purezza espressiva e i segni della forte identità della donna-contadina senza scuola.
                    
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Temi ripresi negli anni successivi, ma condivisi in situazione con poche altre rimatrici vernacolari
analfabete, come Carmela Barletta e.....
Filomena Stancati (Volanu l’anni) e in qualche misura con Francesco Pulitanò (cantastorie delle gesta del brigante
Giuseppe Musolino), col bovaro Giomo Trichilo e nei versi giocosi di Giuseppe Vono
(Giuvaneddi, tenitivi stritta/chidda cosa che aviti devanza). Solo in seguito irromperà la poesia colta
di Franco Costabile (La rosa nel bicchiere), di Achille Curcio (’A vertula d’o poeta;
A scola è ‘na virgogna), di Giuseppe Selvaggi (Canti ionici), di Giusi Verbaro Cipollina
(Nel nome della madre; Otto tempi d’amore), di Anna Borra (canzoniere), di Daniela Pericone, di
Ermelinda Oliva (terziaria carmelitana), con la riscoperta del “lugubre assolo” nihilista di Lorenzo
ù Calogero di Melicuccà (Quaderni di Villa Nuccia).  Ma queste sono storie ancora in cammino, nelle
“scorie dei dubbi” di nuove inquietudini e di veloci frenesie. Intanto:
Non vidi, o Padriternu/ lu mundu ma sdirrupi/ch’è abitatu di lupi/
e piscicani” (B. Pileggi).

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