Sappiamo che la Crisobolla
del 1082 è un editto dell’imperatore Alessio I Comneno di riconoscimento
dei diritti commerciali di Venezia in Oriente e che l’impressione in calce del
suggello d’oro indica l’importanza attribuita al documento dalla cancelleria di
Costantinopoli, diversamente dal molibdobullo di piombo della tradizione bizantina.
Durante il medioevo, anche le corti occidentali fecero largo uso delle bolle
dei sovrani e del papa per l’emanazione di Diplomi e di documenti ufficiali,
come testimoniato dalle varie raccolte paleografiche di codici greci e latini
(1). In questa sede
c’interessiamo del Barberiano latino 3205 dell’Archivio Segreto Vaticano, attinente
alla Carta Rossanese del 1104 e a tre
Diplomi (due del conte Ruggero e uno del vescovo di Squillace dell’anno della
creazione del mondo 6600, cioè del 1092 d. C). Il codice 3205 è un sigillo di
Ruggero II conte di Calabria e di Sicilia, concernente una munifica donazione
di beni a favore di Bartolomeo da Simeri,
archimandrita del monastero basiliano del Patirion
di Rossano (fondato dal beato Nisone di
Simeri e posto sotto il patronato di Adelasia del Vasto, moglie del conte),
che Giuseppe Amato, nel 1884 (2) definiva “il semenzaio dei più illustri
calabresi, per dottrina, per dignità ecclesiastiche e per santità”. L’igumeno Bartolomeo
e i suoi successori vi istituirono un celebre scriptorium di miniatura, un
centro di compilazione dei codici e una ricchissima biblioteca, accresciuta dalle
generose donazioni del basileus Alessio I e dalla basilissa Irene Ducas, su
sollecitazione dell’alto dignitario di corte, l’eunuco calabro-greco Basilio Calimeris o Mesimerio. Nel secondo volume degli Atti dei Pontefici Romani (3), a pag. 797, è riportata la lettera
di papa Pasquale II all’imperatore Alessio Comneno, con la quale si lodava l’opera
di collaborazione a favore delle due Chiese (greca e latina), come ribadito dal
nunzio imperiale Basilio Mesimerio (di Simeri, come Bartolomeo): “Et
fedelissimi ac sapientissimi nuntii vestri, B. Mesimeri relatio nos plenius
certificavit”. Intanto, nella badia rossanese, con la santità dei costumi,
regnava anche l’abbondanza dei beni materiali, tanto da provocare la gelosia
dei benedettini di Mileto di rito latino, i quali accusarono Bartolomeo si
eresia, di peculato, di appropriazione indebita e fraudolente dei lasciti e
delle donazioni, oltre che di nepotismo (nel Patirion dimoravano stabilmente i
familiari del santo). L’archimandrita fu assolto dalla corte di Ruggero a
Messina e posto alla guida del nuovo monastero del San Salvatore e degli oltre
quaranta monasteri basiliani di Calabria.
Il prof. Sapia ha focalizzato la sua attenzione principalmente sull’importanza
linguistica del documento in esame (pubblicato nel 1662 da Ferdinando Ughelli”,
nel IX tomo della sua Italia Sacra),
“di un latino corrottissimo, che accoglie alcuni termini volgari e con un lungo
brano quasi totalmente volgare, che ha fatto ritenere alla maggior parte degli
studiosi di trovarsi dinanzi ad uno dei primi e più importanti documenti della
lingua italiana”. Analogo giudizio era
stato espresso da Ludovico A. Muratori, da Ernesto Monaci, da Pratesi, Lazzari,
Ugolini, Monteverdi e, con riserve, da diversi studiosi stranieri (4). Per l’approfondimento dei “primordi e delle
vicende del dialetto calabrese” non possiamo prescindere dall’Appendice al Vocabolario di Luigi Accattatis del 1895
e dalle comparazioni con alcuni “penitenziali” medievali, ripresi in “Una formula di confessione in volgare antico”
(Civiltà Cattolica, 1936), del Codice
Vallicelliano B.63, che P. Pirri ha messo in relazione col penitenziale del
Codice Cassinese 451 del X secolo, nel quale si raccomandano “parole rustiche
nella confessione dei peccati”.
San
Bartolomeo da Simeri (5)
Nel 1960, Evelyn Mary Jamison rinveniva nella
Biblioteca Vaticana la copia della Carta Rossanese utilizzata da Ferdinando
Ughelli, che, a sua volta, era un’altra copia del 1627 del notaio napoletano
Silverio Ramundo, il quale aveva trascritto l’atto di donazione del 1317 del conte
di Corigliano. Giovanni Sapia, Antonio Piromalli e altri studiosi hanno
sottoposto a un approfondito esame stilistico e filologico la parte volgare
della “Carta”, pervenendo alla conclusione che si tratta della
descrizione di alcuni beni del Patirion in territorio di San Giorgio Albanese,
in un raro esempio di traslitterazione in calabrese del testo greco del 1130. Una
testimonianza del modo di parlare al popolo da parte dei ceti colti e della
burocrazia, un codice di passaggio
(traduzione dal colto al volgare) per rendere accessibile al popolo la lingua “altra”, in aderenza con le stesse
indicazioni del Concilio di Tours dell’813: “Si cerchi di tradurre in modo
comprensibile le omelie in lingua romana rustica, affinché più facilmente tutti
possano intendere quel che sia detto”. Nel documento esistono “calchi dal
greco, prestiti dal latino e mescolanze con l’italiano letterario”. Così afferma
Antonio Piromalli, fornendoci una parziale traduzione fonetica del parlato
volgare: “kum kuesto ordinamu alli monaci
iterum sekundarie a tutti li vellani de Koriano et in altro loco, li recettati
allo vostro loko coè de Fraumund, et li òmeni kuale recettati kuali sono vostri
at kualùnkata loko avèssero loro stabbili, àbbiano kuesti stabeli semper sine
impedimento … konfirmato kum lo presente sòlito sigillo; sigillato kum lo àureo
nostro sigillo dato alla sopraddetta fraternitate”. E’ un esempio concreto
delle finalità giuridico-notarili, cioè delle
ragioni pratiche e funzionali
dell’uso del volgare, secondo i due distinti filoni che si andavano sviluppando:
i placiti (testimonianze rese dai popolani in
tribunale) e le laude religiose. Tra i
primi è famoso quello campano del 960:
“Sao ke kelle terre, per kelli fini que
ki contene, trenta anni le possette Sancti Benedicti”. La lauda più
ricordata è il Planctus Virginis di Jacopone da Todi: “Te portai nillu meo ventre. Quando te beio,
ploro presente. Nillu teu regnu àgime a mente”. Ovviamente il documento ha
una sua particolare importanza dal punto di vista linguistico, ma non aggiunge molto
alla storia del ricchissimo cenobio patiriense, al quale, nel 1105 papa
Pasquale II concedeva il privilegio di abbatia nullius, di “nessuna diocesi”, perché sottratta alla
giurisdizione del vescovo e posta sotto l’esclusiva dipendenza dalla Sede
Romana. Il privilegio di esenzione era stato richiesto da Ruggero II a favore
dell’abate Bartolomeo e papa Pasquale II
era stato ben lieto di concederlo al monastero della Neo Odigitria e alle sue chiese
figliali, svincolandoli dalla giurisdizione del vescovo di Rossano, non solo
come atto di gratitudine verso la corte normanna, ma soprattutto per agevolare la ripresa di più amichevoli
relazioni con la Chiesa d’Oriente, dopo lo scisma di Santa Sofia del 1054, mediante
l’opera dei monaci calabro-greci. E tanto in conformità con l’alleanza politica
sancita tra il Papato e la Corte Normanna nei due sinodi di Melfi del 1059 e
del 1089, nei quali papa Nicolò II e poi Urbano VII avevano conferito il possesso
feudale a Roberto il Guiscardo (e al suo successore Ruggero I), accordando il
titolo di duca di Calabria, Puglia e Sicilia. L’obbiettivo dichiarato del papa
era quello della sottomissione a Roma, attraverso una progressiva assimilazione
del potente e assai influente clero greco, di cui Bartolomeo era sicuramente il
più autorevole rappresentante, dopo la morte di san Nilo, fondatore della badia
di Grottaferrata. I Normanni, da parte loro, potevano così esercitare la
prerogativa dell’ingerenza (non ancora dell’investitura) nella elezione dei
vescovi, di entrambi i riti. Della bolla papale si ha testimonianza
storica nel codice greco vaticano 2050,
un rotolo in pergamena di 117 fogli,
scritto perpendicolarmente “a colonne”,
proveniente dal Patirion, con il colofone di chiusura del copista che
recita: “Il presente libro degli asceti di San Basilio fu terminato l’otto agosto,
martedì alle ore 15, dell’anno 6213, nel quale il SS Papa Pasquale concesse al
nostro Padre Bartolomeo un privilegio di esenzione a favore del suo Santo
Monastero” dedicato alla Madonna Odighitria o Deipara di Costantinopoli.
Bulla di Papa
Pasquale II
Nel 1813, Giuseppe Genovesi illustrava “Un greco
Diploma che si conserva nell’Archivio Generale del Regno, proveniente dal monastero
di S. Stefano del Bosco, assieme ad altri tre molibdobolli, di cui due portano
il sigillo di Ruggero II conte di Calabria e Sicilia e uno del vescovo di
Squillace Teodoro Symerio (stimato abbreviativo
di Mesymerio), la cui formula ordinaria
inizia col nome di colui che l’ha fatto: “Anno 6600 die 7 mensis
Decembris, indictione 15, Theodorus Divina Miseratione Episcopus Castri
Squillacensis, Styli, et Tabernarum, et Syncellus Mesimerius”. Tale sigillo, a pagina 32,
contiene l’annotazione dell’illustrazione dell’antico Diploma, a proposito del
quale il Mobillon ricorda che anticamente i vescovi solevano imprimere nei
sigilli il proprio nome, quella della propria città e quello del patrono della
Chiesa. Nel sigillo sono presenti tutti e tre i nomi: quello di Maria SS
Protettrice e quello di Teodoro Symerio, cioè di Simeri. E’ scritto in greco nella parte alta e
iniziale della pergamena e tradotto in basso in latino; porta la data della sua
emissione, corrispondente all’anno 1092. Il Diploma costituisce l’atto di
fondazione della Chiesa di San Bruno, eretta sul modello della Grande
Chartreuse di Grenoble e consacrata nel 1094 alla presenza di Ruggero. Nel 1096
moriva il quinto vescovo squillacese di nazionalità greca, Teodoro Mesimerio,
che “le antiche memorie il lodano come uomo di santi costumi, amico e generoso
benefattore di San Brunone di Colonia, a favore della cui Certosa non dubitò di
cedere, in forma molto cortese, parte della sua giurisdizione, secondo ché
vedemmo nel documento di un suo decreto” (6). Gli succedette il latino canonico
di Mileto Giovanni De Niceforo, per espressa volontà di Ruggero, di San Bruno e
di papa Urbano II. La diocesi rilatinizzata nelle strutture ecclesiastiche e
oramai “avulsa dal Trono di Costantinopoli”, comprendeva diverse abbazie e
possedimenti nei territori di Squillace, Catanzaro, Stylo e Antistylo,
Satriano, Taverna, Simmari (7), Salìa, Barbaro, Badolato, S. Caterina, Santa
Maria della Rokella apud Palaeopolim, S. Senatore, S. Gregorio, Rocca de
Cathantiaco, Castel di Mainardo e di Cuccolo. E Palepoli era uno dei tre corpi
di città dell’antica Trischene col suo controverso vescovato, la cui sede, nel
1122 papa Callisto II trasferì nella cattedrale di Catanzaro (e non a Taverna) con
uno scorporo dalla diocesi di Squillace. Nel 1130 Ruggero
II veniva incoronato re di Sicilia, Calabria e Puglia, da papa Anacleto; nel
’94 l’imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico VI di Hohenstaufen, conquistava
il Regno di Sicilia e inaugurava la dinastia sveva, che avrà il suo culmine
politico in Federico II, universalmente noto come Stupor Mundi.
Sulla Certosa si rinnovano ancora oggi storie e leggende,
più o meno fantasiose e suggestive, come quella dell’aviatore americano che nel
1945 avrebbe sganciato la.........
bomba atomica su Hiroshima: così ha ipotizzato Sharo Gambino, mentre Leonardo Sciascia (“La scomparsa di Majorana”) era convinto che il noto scienziato nucleare italiano potesse essere stato sepolto proprio nel cimitero dell’eremo di Serra, “vestito del saio certosino”, nella nuda terra, sotto una croce senza nome. Intanto il laghetto dei miracoli, con al centro la statua del Santo inginocchiato, continua ad essere meta di pellegrini, il primo lunedì di Pentecoste di ogni anno, confidando in miracolose guarigioni.
bomba atomica su Hiroshima: così ha ipotizzato Sharo Gambino, mentre Leonardo Sciascia (“La scomparsa di Majorana”) era convinto che il noto scienziato nucleare italiano potesse essere stato sepolto proprio nel cimitero dell’eremo di Serra, “vestito del saio certosino”, nella nuda terra, sotto una croce senza nome. Intanto il laghetto dei miracoli, con al centro la statua del Santo inginocchiato, continua ad essere meta di pellegrini, il primo lunedì di Pentecoste di ogni anno, confidando in miracolose guarigioni.
N
O T E
(1) Cfr.
“Diarium Italicum” e “Paleographia
Graeca” di Bernard de Montfaucon; Raccolta Barberiana Latina; Raccolta
della Badìa Greca di Grottaferrata; Raccolta De Meo; “Rerum Italicarum Scriptores” e “Antiquitates
Italicae Medi Aevi” di Ludovico A. Muratori.
(2) “Crono-istoria di Corigliano Calabro”,
Tipografia del Popolano, 1884
(3) “Acta Romanorum Pontificum a S. Clementi I ad
Coelestinum III, in Enciclopedia dei Papi,
II, 228-236; cfr. Vincenzo Ruggieri e Luca Pieralli, “La Caria Bizantina”.
(4) Erich
Caspar (Atti del Convegno internazionale
di studi ruggeriani”, 1955), Pier Batiffol, Ferdinand Chalandon.
(5) Il
S. Bartolomeo della chiesa parrocchiale di Simeri è una tela di Giovanni
Marziano del 2015; all’entrata della chiesetta è allocato un altro dipinto del
Santo, opera di Marcello Giovene, autore anche di “Simeri e i suoi casali”.
(6) Paolo
Capello, “Vita di San Bruno fondatore dei
Certosini”, 1886. Cfr. anche: F. Vargas Macciucca, “Esame delle vantate carte e diplomi dei rr.pp. della Certosa di Santo
Stefano del Bosco”, 1765; C. Franchi, “Difesa
degli antichi diplomi Normannici, spediti a favore di S. Stefano del Bosco”,
1758. B.Tromby, “Storia critico-cronologica diplomatica del Patriarca San Brunone e del
suo Ordine Cartusiano” 1773: ricorda la concessione “di alcune sue
possessioni a Rodolfo maestro dell’Eremo di S. Maria del Bosco, e suoi
successori” da parte di “Guglielmo
Carbonello, signore assai potente in Calabria Ultra, “di consentimento di
Emma sua moglie e di Riccardo suo figlio, in una Carta il cui transunto
conservasi nell’archivio di detta Certosa, ex Breviario Privilegiorum Cartus.
SS Stephani et Brunonis, fol. 17 et 18”. E’ l’anno 1132, Carbonello è il
Signore di Simari e i possedimenti ceduti sono quelli della chiesa di S.
Teodoro delle stessa Terra di Simari.
(7)
Semirus
nella N.H. di Plinio; CIMEPIO (cioè Simerio, abbreviativo
di Mesimerio, nella crisobolla del 1092 del vescovo Teodoro); s. mni^ri^
nella Tabula Rogeriana di Al-Idrisi del 1154 e va^di^ salmi^rah il fiume omonimo; Simari nel bios di Bartolomeo; Sìmmaro nel 993 nell’Annalista
Salernitano e nella Cronaca di Arnolfo; Simeron
in F. Trinchera (Sy. Gr. M. 1124); castrum
Sìmari in D. Vendola (Ra.De. 1202 e 1310); Simmari o Simari in Leandro Alberi, Marafioti, Fiore, Nola Molisi; Symbaris nelle carte notarili. Salìa del Diploma del conte Ruggero del
1096 è la Selion di Julo Catimero della
Chronica di Ferrante Galas del 1428, La
Sellia in Giovanni Fiore, quindi Sellia
Superiore (ora solo Sellia, dopo l’istituzione del comune di Sellia
Marina). Castel di Mainardo: castrum
Maynardi: Filadelfia dal XVII secolo. Rocca
di Niceforo diventa Cattarozzaro
nell’813, Rocca de Cathantiaco que
fuit Ugonis Falluce nel 1085; Rocca
Falluca nel 1284: a 6 km dal fiume Corace, lungo la via della pietra verde di
Calabria del Neolitico. Casal del
Cucculo: cfr. donazione di Guglielmo Carbonello, nel 1132, a favore dell’eremo
di S. Bruno. Palepoli
era città metropoli di Trischene e ancora nel 1842, don Filippo Tiriolo,
parroco incaricato della marina di Uria dell’attuale Sellia Marina, si qualificava
nei registri parrocchiali come curato di Sibaris Inferioris, “Civitate Trium Tabernarum Simarj” (cfr. Santa
Maria del Bosco, Calabria tra mito e fede, 2018).
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