lunedì 14 giugno 2021

Simeri Crichi: storia di un (non) Eroe ma neppure traditore

 


Il 25 aprile del 2012, alla presenza delle massime autorità regionali e comprensoriali e di una rilevante rappresentanza delle diverse armi dell’esercito italiano, in una cornice di popolo commosso e partecipe, venivano scoperte in piazza Martiri 1809 tre lapidi marmoree, poste sulle facce del piedistallo del Fante all’attacco di Giuseppe Ciocchetti, contenenti l’elenco dei figli di Simeri Crichi caduti in guerra. Il luogotenente Critelli si era fatto carico della ricerca dei fogli matricolari dei soldati caduti in guerra (non soltanto morti in guerra o per causa di guerra). Particolare, questo, che sollevò un vero e proprio tormentone, perché dall’elenco dei soldati dell’ultimo conflitto mondiale manca il nome di un nostro fante, morto all’età di 27 anni, nel corso della famosa Operazione Barbarossa, cioè dell’invasione tedesca dell’Unione Sovietica del 1941. Era stato fucilato al palo il 1.6.1942 da un plotone di esecuzione italiano e sepolto nel cimitero della Divisione “Pavia”, a 1,5 Km dalla rotonda della strada dei Nogai, dove una delle 4 bocche del fiume Saghiz si mescola nel Mar Caspio. La fucilazione al palo, e non al petto o alla nuca, era prevista dal codice penale militare di guerra (Riforma Lamarmora) per i militari che si macchiavano del reato di alto tradimento. Dato che risultò imprescindibile nella decisione di non includere il nominativo sulla lapide commemorativa dei caduti in guerra.                                                                         Il nostro giovane compaesano era stato richiamato e inquadrato nel Corpo di Spedizione  Italiano in Russia (CSIR), poi incorporato nell’8a Armata dell’ARMIR, forte di 229.000 uomini, sostanzialmente con funzioni di rincalzo alla Wehrmacht, sul fronte centrale del Don, dove comunque il controllo del territorio si andava appalesando sempre più difficoltoso, per via della pressione partigiana, del generale inverno di napoleonica memoria, della inadeguatezza dell’equipaggiamento da combattimento (le “pezze da piede” e le mollettiere al posto delle calze di lana e degli stivali, i muli e non i carrarmati delle divisioni corazzate russe e tedesche, il fucile 91 contro il Moisin-Nagat dei Russi e il Mauser K98K dei tedeschi). Per non dire delle condizioni generali di salute e di vita delle truppe. Ancora oggi l’espressione “pezza da piede” esprime estensivamente tutto il suo significato negativo. I nostri soldati meridionali erano per lo più giovani contadini analfabeti, con una conoscenza approssimativa della stessa lingua nazionale, parlata quasi esclusivamente dagli ufficiali di tradizione piemontese e papalina, come risulta chiaramente dalle diverse inchieste parlamentari del tempo. La leva obbligatoria e gratuita li aveva sradicati dai campi e dai loro paesini malarici. Analfabetismo (oltre il 90% in Calabria, Sicilia e Sardegna, contro una media nazionale del 37,9%), denutrizione, pellagra e consapevolezza del danno economico familiare causato dalla leva, spiegano in qualche modo il diffuso sentimento di ostilità e di protesta, che si poteva concretizzare nella renitenza alla leva e in atti di autolesionismo per eludere il servizio coercitivo della leva militare. Mussolini aveva voluto partecipare all’invasione, nonostante la scarsa convinzione del Fuhrer, col pensiero alle allettanti trattative postbelliche. In quel clima la propaganda russa trovava terreno fertile, come confermano i massicci rastrellamenti nell’uno e nell’altro fronte. La storia ci consegna un dato emblematico: a Stalingrado i Sovietici giustiziarono 13.550 soldati della stessa Armata Rossa, su relazione del proprio servizio di controspionaggio militare, mentre 50.000 Russi risultavano inquadrati in uniformi tedesche e utilizzati nel lungo accerchiamento della città baltica. Nelle condizioni date, quale consapevolezza poteva avere un giovane contadino nella gestione di un qualsiasi dato riservato, quando cadeva nella trappola  di un’operazione di guerra psicologica (PSYOP) con i “mezzi di disseminazione di propaganda al nemico per la conquista delle menti “, come i sofisticati messaggi di sconforto e la strumentale accoglienza di alcune compiacenti famiglie del kolchoz dei territori occupati, che debordavano dalla sua esperienza e dal livello di permeabilità della sua personalità?             

Reparti italiani sul fronte orientale.

Fanti italiani in Russia

Le sue radici affondavano nel drammatico immobilismo della vita grama del piccolo mondo dei paesini calabresi, angariati dal potere e avvezzi all’ingiustizia, alla disillusione e alla perpetuazione di modelli sociali antiquati, tanto che Antonio Alvaro ha potuto scrivere:                                           “No ndaju ‘nsordu mai, dormu a lu scuru,                                                                                          / e strazzati di supra aju li panni”.                                                                                                         Nel ’46, degli 80.000 dispersi in Russia, tornarono solo 21.000 uomini dai ............

gulag kazaki, altri erano morti in battaglia, per fame o per assideramento, sovente abbrutiti dalle difficoltà, ma molti altri erano rimasti perché si erano fatta una famiglia ed erano stati rieducati dal regime staliniano. Esemplare risulta il famoso film del 1970 “I girasoli” di Vittorio De Sica, con Marcello Mastroianni e Sophia Loren. Anche l’operazione di rimpatrio postbellico fu variamente complicato, come risulta anche dalla corrispondenza riservata tra Giuseppe Di Vittorio e il premier russo Molotov, oltre che dalla indifferenza e dalla rimozione generale, all’alba della guerra fredda. I reduci dell’ARMIR si mostrarono quasi sempre restii a raccontare la storia della loro permanenza nei campi di lavoro forzato e delle esecuzioni sommarie, rimaste nascoste forse per sempre negli archivi militari, di volta in volta manomessi ed epurati. Dalle scarse testimonianze raccolte localmente sembrerebbe che il nostro giovane fante fosse gentile e di bell’aspetto e avesse anche lasciato una propria discendenza naturale. Ci chiediamo, fuori da ogni sentimentalismo d’antan: il nostro compaesano deve restare in eterno imprigionato nel lago ghiacciato dell’Antenora, come il conte Ugolino della Gherardesca e l’arcivescovo Ruggero degli Ubaldini, o è possibile derubricare la sua colpa (frutto probabilmente di un qualche miraggio o della delazione di un commilitone opportunista), restituendogli, se non l’onore militare, almeno quello dell’uomo, piegato a esperienze più grandi di lui? E’ forse una maledizione nascere contadino e meridionale? Sovente i collaborazionisti dei campi di prigionia e di detenzione, sottoposti a lavoro coatto, venivano derubricati a “Internati” e fatto salvo il riconoscimento dell’onore, secondo la Convenzione di Ginevra e il diritto umanitario. Il 12 marzo del 1944, dopo un frettoloso processo, furono fucilati dai loro stessi compagni, a Campo di Marte di Firenze, 5 ventunenni accusati di renitenza alla leva della Repubblica Sociale di Salò e sospettati di appartenere alla brigate partigiane. Il 25 aprile del 2009, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano insigniva i 5 martiri della medaglia d’oro al valore civile. Forse una nemesi, più che l’elogio dell’eresia. Per il nostro fante-contadino non si possono addurre ragioni necessarie e sufficienti per una formale riabilitazione di guerra, ma forse oggi la storia può autorizzare la verifica della caratterizzazione etica e sociale dell’atto di tradimento e perorare la restituzione dell’onore a uno dei tanti inconsapevoli soldati carne di cannone, conferendo alla ragion di Stato un più solido vincolo col sentimento popolare.

ricerca storica del Prof. Marcello Barberio.

Nessun commento:

Posta un commento

SELLIARACCONTA ®©2009 Tutti i commenti sono moderati in automatico