Nonostante la contrazione economica, che
stritola l’Occidente in una crisi più lancinante di quella del ’29,
il crollo dell’occupazione, le violente oscillazioni delle borse e la
cupa prospettiva “di due o più anni di ristagno economico globale”, i
pontisti non arretrano di un millimetro. Tengono strette le loro
convinzioni (che il prof. Bruno Sergi espone , con cognizione di
causa) e s’entusiasmano all’idea che la campata unica di 3300 metri
per l’attraversamento stabile delle “epiche sponde”, sbriciolerà il
primato del ponte di Akashi Kaikyo in Giappone di soli 1991 metri.
Noncuranti, peraltro, della messa in discussione di uno dei principali
atout del ponte: l’essere il terminale del corridoio “Berlino-Palermo”.
Corridoio però cancellato, salvo ripensamenti, dall’Unione europea.
Infatti, nella proposta di bilancio “Europa 2020” inviata dalla
Commissione Ue il 29 giugno all’Europarlamento, la geografia delle
grandi infrastrutture è stata sobillata. E nelle priorità
infrastrutturali, all’ex vecchio Corridoio 1 “Berlino-Palermo”
subentra il nuovo Corridoio 5 “Helsinki- La Valletta”, che a Napoli
vira verso Bari, salta la Calabria e la Sicilia e rende superfluo
il Ponte. I pontisti hanno, naturalmente, tante frecce nella
faretra, per spiegare che l’infrastruttura è “l’occasione del Sud”;
benché quando il Governo e le grandi imprese ricorrono ad
espressioni così altisonanti, al Mezzogiorno dovrebbe venire
l’orticaria. D’altronde appare esagerato il dilemma, ventilato dagli
oppositore, secondo cui il Ponte addirittura è alternativo allo
sviluppo del Sud. In sintesi, per chi lo considera imprescindibile, il
Ponte porterà benefici indiretti legati al turismo, alla mobilità ed
all’ampliamento dell’occupazione. Ed a supporto di siffatte tesi, si
sottolinea che il Ponte non incide sulle finanze pubbliche, oltre ad
essere una priorità di politica economica. Questa panoplia di punti
di forza ( confutati dal prof. Domenico Marino) fa impallidire il più
ostinato dei detrattori di un’infrastruttura su cui si disputa dai
tempi dei romani. Stupisce, in ogni modo, l’indifferenza con cui si
procede nell’iter realizzativo del Ponte (per cui finora sono stati
spesi all’incirca 500 milioni di euro) nonostante il sisma e lo tsunami
alto dieci metri che hanno sconvolto l’11 marzo scorso il Giappone:
la seconda potenza economica e tecnologica del mondo. Quella tragedia
non ha incrinato la determinazione a costruire, tra la Calabria e la
Sicilia, regioni appollaiate su un’area sismica dove nel 1908 un
terremoto di magnitudo 7.2 ha provocato 100mila morti, quella che per
alcuni sarà l’ottava meraviglia del pianeta ( quantunque la
definizione sia improvvida, vista la fine che hanno fatto le altre
sette) e per altri, viceversa, un’opera che avrebbe l’unico merito di
collegare due deserti. Sembra cancellato dalla memoria quel 28
dicembre di poco più di un secolo addietro e dimenticati i versi della
poetessa lombarda Ada Negri, che esortava a prestare soccorso:
“Fratelli in Cristo/ destatevi dal sonno/ andate a soccorrere con leve e
pale/ con pane e vesti. Nelle lontane terre dell’arsa Calabria crollano
ponti e città/i fiumi arretrano il corso/sotto case travolte le
creature sepolte vivono ancora/chissà. Batte la campana a stormo. Pietà
fratelli, pietà”. I termini della vexata quaestio sono noti. Si sa
chi il Ponte lo vuole e chi lo aborre. Ma se il confronto, da cui è
necessario espungere le visioni apocalittiche, tra sostenitori e
detrattori, su un’opera che ha avvinto persino zio Paperone ( in un
numero di Topolino il simpatico spilorcio lo costruisce per far soldi, ma poi
glielo portano via con dei palloncini) e di cui si discute da quando
il console Lucio Cecilio Metello intendeva far passare i 140
elefanti sottratti al generale cartaginese Asdrubale, non può che far
bene alla discussione, restano tuttora senza risposta alcuni
precisi interrogativi. Ad incominciare (punto primo) da chi dovrà
erogare materialmente i capitali necessari (da 6. 3 a 8.5 miliardi di
euro)
per la campata unica (da finire entro il 2017) lunga 3.300
metri, larga 60 e sostenuta da due piloni sui due versanti siciliano e
calabrese. Se è in grado (punto secondo) un Paese disorientato e
lentocratico come il nostro, che nel Sud ha un’autostrada in
rifacimento da tempo immemorabile e il cui epilogo continua ad essere un
mistero, aprire un cantiere così invasivo e chiuderlo in tempi record.
Quando piuttosto è verosimile ritenere che ciò non avverrà. E che,
invece, lo terrà aperto per un tempo insopportabilmente lungo,
deturpando uno dei luoghi più suggestivi al mondo, per ricchezza
naturalistica, storica e mitologica. Se (terzo punto) a conti fatti, non
converrebbe, anziché spendere (ancora) cifre da capogiro per un’opera
ardita e dagli esiti incerti, provvedere con sollecitudine a mettere
in sicurezza il territorio di questa parte del Mezzogiorno a rischio
frane e dissesto idrogeologico. Investendo sul risanamento delle coste e
sul rilancio dell’entroterra abbandonato ad una desertificazione
sociale galoppante, in cui s’insediano agevolmente, alla faccia dei
cultori della democrazia liberale e dello Stato di diritto, la
speculazione economica più spregiudicata e la criminalità organizzata.
tratto dal Quotidiano della Calabria