Il suo amore per le terre meridionali risale al '54,
alla ricerca di culture autentiche, quasi in via d'estinzione, con la
produzione di piccoli capolavori come "Lu tempu de li piscispata",
"Isole di Fuoco", in cui la vita di pescatori, minatori, contadini,
pastori assume dimensione epica di lotta per la sopravvivenza.
Un senso del sacro, del mistico, che De Seta rintraccia
nel rapporto tra uomo e natura, l'agone quotidiano, terribile ma quasi
cavalleresco, senza vincitori né vinti, in cui si perpetua un ordine
secolare, di esiodea memoria.
Dopo un lungo periodo di flessione e riflessione, il
cineasta ritorna negli anni '90 ispirato e lirico, con tanta voglia di
scatenare dibattiti e suscitare interesse. E col documentario "In
Calabria" salda il suo debito con la terra in cui aveva scelto di
vivere, nella tenuta di Sellia Marina a pochi chilometri da Catanzaro: è
il ritratto di una regione a metà tra mancato sviluppo industriale e
permanere di civiltà agreste, in bilico, con un presente gravido di
contraddizioni. Quell'immagine del pastore che spazza la neve per far
brucare le capre, riporta dritta al lirismo dei documentari di decenni
prima, e fa riflettere sul tempo che passa e tuttavia qui non cambia né
cose né persone.
Nel marzo del 2002, ad Eugenio Attanasio, attuale
presidente della Cineteca della Calabria, De Seta spiega questo suo
inguaribile attaccamento a Sicilia e Calabria: «Qui si è prodotta
localmente cultura, attraverso canti, dialetti, linguaggi, abiti - dice -
. Si è accumulato un patrimonio che in pochissimo tempo ha cominciato a
disgregarsi fino a frantumarsi completamente. È successo quello che
diceva Pasolini: tu non distinguevi più per la strada chi era un operaio
e chi un borghese, mentre invece una volta, in Sicilia, in Calabria,
dal dialetto o anche dal modo di vestire, distinguevi se uno era di un
paese o del paese distante dieci chilometri».
In Calabria gira "I dimenticati" e chiarisce: «David
Maria Turoldo ha scritto un libro dal quale Vito Pandolfi ha tratto un
film, "Gli ultimi". Ecco, io ho cantato i "dimenticati", i diversi,
perché sono sempre stato attratto dai diseredati»
Cercando di ritrovare quel mondo epico, mitologico,
quel rapporto osmotico tra contadino, pastore e natura, dice: «Il
contadino ormai, antropologicamente non esiste più; i coltivatori sono
diventate persone che girano in macchina, che assumono extracomunitari,
che piantano nelle serre. Se vai sul Pollino forse qualcosa si può
trovare, ma hanno 50/60 anni, sono già diversi. Gli altri si impiegano,
nessuno sogna più di fare il contadino, nessuna ragazza sposerebbe un
contadino».
De Seta racconta i contadini, e ad un certo punto si
mette a fare lui l'agricoltore, a Sellia: «Un'attività pratica. A un
certo punto mi sono sentito chiuso, non riuscivo più a fare cinema, ho
ripiegato e ho fatto "Diario di un maestro", mi è andata bene, ho avuto
successo. Poi ho sentito che si chiudevano gli spazi, non c'era modo di
lavorare. Ho pensato alla campagna e a piantare un pò di olivi. Mi sono
fermato quasi vent'anni».
Da documentarista e da regista lascia la Calabria nel
'59, l'anno de "I dimenticati", poi torna negli anni '90 e trova una
regione diversa, trasformata. «Da un lato - dice - è cambiata
moltissimo, dall'altra è rimasta arretrata. Può sembrare un discorso
paradossale, ma in Calabria neanche l'industrializzazione si è
celebrata, si è verificata. È un fatto abbastanza atroce il destino di
una regione che si vede passare sotto il naso questa beffa
d'industrializzazione che ha creato solo danni. Abbiamo questa amarezza
di vivere in un'epoca postindustriale senza avere avuto un'industria, e
continuiamo a non sapere sempre di più quello che siamo e quello che
dobbiamo diventare».