Le arance per la Fanta frutto del lavoro di "migranti schiavi"
Una inchiesta del periodico
The Ecologist ha messo a nudo come le arance che servono alla
produzione della Fanta provengano da lavoratori definiti "schiavi"
attivi in Calabria
Condizioni di
vita da schiavi, paga ridicola, nessuna tutela, caporalato imperante. È
la situazione di molti migranti, spesso clandestini, che lavorano da
stagionali in Calabria e raccolgono le arance destinate a finire nelle
lattine di Fanta, marchio di proprietà della Coca-Cola. L’indagine è
stata condotta dal periodico The Ecologist e rilanciata
dall’Independent. Il colosso americano ha però smentito le critiche
assicurando che i produttori da cui si serve sono regolarmente
controllati da terze parti indipendenti in modo che gli standard siano
rispettati. La Coca-Cola ha poi ammesso che la filiera produttiva è
talmente lunga da non poter garantire la stessa cosa per le aziende che
lavorano in subappalto. Alla base di tutto ci sarebbero i prezzi da
fame pagati dalle grandi multinazionali ai produttori – 7 centesimi al
chilo. Pietro Molinaro, capo della Coldiretti Calabria ha detto che il
“prezzo appropriato» sarebbe di 15 centesimi. Il quotidiano britannico
sottolinea però che non ci siano prove schiaccianti di cattiva condotta
da parte di Coca-Cola o i dei suoi fornitori.L'inchiesta racconta come proprio in questi giorni circa duemila africani, molti dei quali sono arrivati in Italia affrontando un viaggio a dir poco insidioso, siano impiegati nelle campagne calabresi. Per un'intera giornata di lavoro ottengono al massimo 25 euro. Sono concentrati per lo più intorno alla città di Rosarno e raccolgono gran parte delle 870.000 tonnellate d'arance che ogni anno sono colte in Calabria. La maggior parte di questi lavoratori vive in baraccopoli in condizioni pessime ed è alla mercé delle organizzazioni criminali. Ai caporali infatti i migranti pagano "una tassa" per poter lavorare negli agrumeti calabresi. Le arance raccolte sono usate per produrre succo concentrato che è poi venduto a diverse multinazionali, tra le quali c'è la Coca Cola. Quest'ultima sarebbe una delle principali acquirenti di succo d'arancia concentrato che utilizza per la produzione della Fanta. Secondo gli attivisti, il vero scandalo sarebbero i 7 centesimi pagati dalle multinazionali per ogni chilo di succo d'arancia: il prezzo sarebbe troppo basso e lo dimostra il fatto che tanti agricoltori locali preferiscono lasciare marcire sugli alberi gli agrumi piuttosto che raccoglierli. Da qui segue che le aziende che danno lavoro agli extracomunitari sono costrette a sottopagarli e a sfruttarli perché questo è l'unico modo per ottenere un profitto dalla vendita del succo d'arancia alle multinazionali.
DIFESA E REPLICA -
Pietro Molinaro, presidente della Coldiretti Calabria, ha raccontato
alla rivista ecologista di aver presentato il problema alla Coca Cola,
che solo nel 2010 ha fatturato 11,8 miliardi di dollari,
ma di non aver
ricevuto risposta: «Il prezzo che pagano le multinazionali non è giusto -
confessa Molinaro - Così costringono le piccole aziende dell'area a
sottopagare gli operai». Secondo Molinaro basterebbe arrivare al "giusto
prezzo" di 15 centesimi e la situazione degli agricoltori e dei loro
dipendenti cambierebbe radicalmente. La Coca Cola, in un comunicato
diffuso dal suo ufficio stampa, respinge le accuse: «I nostri principi
guida prevedono il rispetto di tutte le leggi locali sul lavoro - si
legge nella nota - comprese quelle dei salari. Controlliamo anche che i
nostri fornitori diretti garantiscano tali impegni. Dopo aver esaminato i
nostri dati, abbiamo scoperto che il controllo più recente del nostro
fornitore a Reggio Calabria risale a maggio 2011. Possiamo confermare
che nessuna delle preoccupazioni sollevate è stata riscontrata durante
verifiche portate a termine da organi indipendenti. Anche se non
possiamo controllare ogni consorzio e ogni contadino, il nostro
fornitore di succo ha presentato le dichiarazioni di un ampio numero di
consorzi con cui lavora che confermano di rispettare le leggi italiane
in materia di lavoro».