giovedì 31 maggio 2018

Santi monaci e chierici selvaggi nella Catanzaro del Seicento


SANTI MONACI E CHIERICI                                                                  SELVAGGI                                                                                                       

Nell’estate del 1623, il lucchese Lorenzo Cenami prendeva possesso a Catanzaro dell’ufficio di Governatore della Calabria Ultra, in esecuzione  della nomina di Filippo IV di Spagna, e subito sperimentava l’ostilità dei baroni e dell’alto clero, come emerge chiaramente dalle Visite ad Limina dei vescovi  di Catanzaro(Fabrizio Caracciolo), di Squillace (Fabrizio Sirleto), di Belcastro (Girolamo Ricciulli), dell’ Isola ( Ascanio Castagna) e di Santa Severina (Diego Cabeza de Vaca).  Quest’ultima diocesi metropolitana  comprendeva la città di Crotone e le suffraganee di Umbriatico, Cerenzia, Gallipoli e dell’Isola; Belcastro  comprendeva anche i villaggi di Villa Aragona e Sant’Angelo, abitati prevalentemente da profughi albanesi e dagli ebrei (marrani) sfuggiti agli editti di espulsione del 1492 e del 1510. La diocesi di Catanzaro  era  suffraganea  della metropolìa di Reggio Calabria e comprendeva  8 foranìe, 6 istituti religiosi maschili, 2 monasteri domenicani femminili, 3 conventi delle Clarisse (di Santa Chiara, della Stella e delle Convertite o  “pentite” della  Maddalena) e un numero esorbitante di associazioni e confraternite. In base al trattato di Barcellona del 1529 tra papa Clemente VII e l’imperatore Carlo V, delle 24 diocesi calabresi erano di presentazione regia gli ordinari di Tropea, Cassano, Reggio e Crotone, mentre gli altri vescovi erano di esclusiva nomina pontificia. A Catanzaro, a Simeri, a Cropani, a Belcastro e a Santa Severina erano ancora attive nelle “judeche” alcune comunità ebraiche  -   col ruolo di “banchieri” (a usura) a sostegno della non florida economia locale  -   fortemente caratterizzate da un’ aspra conflittualità con la maggioranza cattolica della popolazione, specie durante la settimana santa, quando solevano “cagionare molti inconvenienti”, in associazione col risus paschalis. Infatti, durante la liturgia pasquale, il prete si trasformava nella sua antitesi comica del giullare plebeo, per suscitare la grassa ilarità dei fedeli, con buffonesche sconcezze, mimiche e verbali, soprattutto a sfondo sessuale. Si trattava, verosimilmente, della stratificazione folklorica di un antico rito pagano come la festa dei folli di ascendenza naturalistica, costantemente condannato nelle disposizioni “colte” dei sinodi calabresi dei secoli XVI e XVII.    
Nell’Archivio Generale Agostiniano di Roma (A.G.A., Cc 13, f.153) è custodita la lettera del 27.3.1659 del vescovo Visconti di Catanzaro con la quale invitava il vicario foraneo di Simeri  a eliminare con adeguato zelo il fanatismo religioso e la credulità popolare durante la rappresentazione della passione di Cristo della Settimana Santa, quando “drappelli di giovani vestiti da soldati romani e cortei di giudei, con la loro mimica suscitavano risi e lazzi più che devozione”-  In altre lettere (f.225) lo stesso prelato (di provenienza milanese) scriveva al confratello vicario di Taverna: “Viviamo in modo che le chiese sono fatti postriboli e lupanari, non vergognandosi di tenervi letti e donne impudiche con molta offesa  del Creatore […] L’immunità stessa ci fa più insolenti perciocché ivi, armati e dalla porta o poco longi dalla chiesa, oprano molti scandali e necessitano li nemici a star lontano [..] giochi, bagordi, crapule, cantilene oscene”. Infine, alla Congregazione dei Vescovi comunicava, in ossequio alle disposizioni tridentine: “Non vi è casa che non habbi clerico, non vi è clerico che non habbi donatione, non vi è donatione che non sia finta, non vi è fintione che non generi travagli con i regij, con la communità e con i parenti vedendo il tutto dovuto al clerico”. (Cfr,” Un milanese nella Calabria vicereale”, a cura di Donatella Gagliardi).
Dall’ “Epistolario Ufficiale del governatore Cenami” e dal “Cunto del Real Thesoriero di Calabria Ultra apprendiamo che il sistema difensivo calabrese contro le nuove ondate delle incursioni piratesche  turche, dopo l’effimera vittoria di Lepanto del 1571, era così strutturato: 339 torri di guardia costiera (49 torri di avvistamento e di presidio  in Calabria Ultra, di cui 18 dall’Alli al Neto),  castelli “marittimi” ,  provvisti di adeguata artiglieria, affiancati dalla compagnia spagnola della piazzaforte di Crotone e dalle compagnie di cavalleria della milizia di Papanice, Stalettì e Catanzaro, acquartierate a 4 miglia dalla costa di Simeri e di Cropani e sul Tacina. Nella sola marina di Catanzaro insistevano, sin dal tempo dei viceré Pedro de Toledo e Pedro de Ribera, una torre angioina, la daziaria e due cavallare, di cui una a La Petrizia.
                                        

                                                           Incursione saracena
Le comunità locali erano oberate da un’infinità di pesantissimi balzelli, che servivano a sostenere lo sforzo bellico spagnolo e l’opulenza dei nobili e delle mense vescovili: i contadini erano piegati all’asservimento del villanaggio o costretti ad abbandonare i casali, per sfuggire alle vessazioni  del sistema feudale, come la decima, la fida,gli angari e parangari, il diritto di piazza e di caricatura, i diritti proibitivi (jus proibendi mulini, trappeti e  acque pubbliche) e particolari, come quello relativo alle chiese collegiate, sulle quali il patrono vantava il diritto della provvista ecclesiastica. Così a Cropani, a Simeri, a Squillace e all’Isola.
Il Governatore si scontrò subito col Preside della Regia Udienza  e con la cupidigia dei funzionari regi, dei collatori ecclesiastici e baronali (con i Ravaschieri  di Simeri, Cropani e Satriano, con i Sersale di Belcastro , i Borgia di Squillace, i Ruffo della contea di S. Severina, i Cicala di Gimigliano e Tiriolo, tutti titolari della giurisdizione penale del mero e misto imperio), ma soprattutto con l’ignoranza dei monaci e del clero secolare e con la corruzione nei tribunali locali, laici e religiosi, competenti anche sui  benefici e sui regi patronati.   
Dalle ispezioni delle visite triennali dei vescovi (imposte dal Concilio di Trento) emerge  che diversi parroci sottoscrivevano gli atti col semplice segno di croce, altri non sapevano celebrare messa e non avevano cognizione dei libri parrocchiali, oltre a trascurare la custodia degli arredi e dei paramenti e a eludere l’obbligo della residenza, preferendo vivere in luoghi più salubri e più comodi.  Perduravano abusi e immoralità, mentre diverse chiese andavano in lenta rovina a causa dell’usura del tempo e dell’incuria generale.  “Il numero dei chierici continuava ad essere pletorico. Solo poco più di un terzo, però, erano ordinati in sacris. Tra gli altri ..[…] i diaconi o chierici selvaggi  e i chierici coniugati […] godevano della esenzione delle tasse e non erano soggetti al foro civile”, ha confermato recentemente mons. Antonio Cantisani, in “ Vescovi a Catanzaro (1582-1686)”. Alle stesse conclusioni era giunto anche Augusto  Placanica (“Storia della Calabria”) trattando del clero postridentino regionale: “chierici corrotti, duellanti,protettori di banditi o banditi essi stessi […]nonostante le condanne dei sinodi diocesani e dei concili provinciali. I chierici selvaggi, per lo più di provenienza aristocratica, erano esenti da imposte e gabelle, violenti,perturbatori dell’ordine pubblico […] rappresentavano il 64% del clero secolare.” Secondo i dati della Relationes 205 del 1636 di mons. Caputo (Arch. Seg. Vat, Congr. del Concilio), a fronte di una popolazione di 29.416 abitanti della diocesi di Catanzaro, il clero secolare era costituito da  933 unità (3,1%), di cui 369 sacerdoti (1,2%) e 564 chierici (1,9%).
Padre Giovanni Fiore (“Calabria Illustrata”, 1691), però, racconta anche di ecclesiastici di santa vita, dotati  di una solida spiritualità penitenziale, come fra’ Girolamo di Albi, fra’ Lorenzo di Cutro, fra’ Bonaventura dell’Isola, frat’Antonio di Magisano, fra’ Bonaventura di Zagarise, fra’ Bernardo de Cumis di Catanzaro, frat’Antonio Piccoli di Squillace, diversi monaci dell’ordine francescano del beato Paolo D’Ambrosio di Cropani e soprattutto il profetico fra’ Silvestro di San Pietro di Taverna, “arricchito di gran lume per conoscere le cose occulte”.  Dimorò nel convento dei cappuccini di Simeri per oltre 25 anni e , “singolarissimo nell’umiltà” e nella perpetua vita quaresimale, si faceva chiamare col nome del bandito Scarcella, mentre “quelli di Simmari portavano opinione che per la sua sola santità Iddio conferiva loro ogni bene”. Un giorno, il duca di Girifalco inviò un suo delegato, “ con mediocre comitiva di gente armata, per consultare con Fra’ Silvestro cose di premura, ma quei della Terra, rapportando fossero venuti per portarsi l’uomo di Dio, corsero a folla in convento” , costringendo il messo a tornarsene indietro.
 Dalle “Visite” scopriamo anche che, il basso clero e gli ordini religiosi mendicanti vivevano in povertà, nel rispetto delle costituzioni francescane, che prevedevano la “cerca” da parte degli oblati con la bisaccia e il somarello,  per la sussistenza dei frati e per sfamare i poveri nel bisogno e in tempo di carestia. Incredibilmente anche nel campo dell’oblazione monacale si registravano abusi e nefandezze varie da parte di vagabondi e mestieranti travestiti da quaestores elemosinarum o da eremiti, che giravano per le campagne e i paesi imbonendo le persone semplici  con racconti mirabolanti a fini estortivi, per poi vendere la mercanzia a privati e agli stessi ospedaletti di mendicità.  Sempre nell’Epistolario del Cenami, alla data dell’8 novembre 1623 è riportata la cronaca dell’aspro conflitto tra il principe Ettore Ravaschieri, feudatario di Simeri, e il vescovo di Catanzaro Fabrizio Caracciolo, a causa del diritto particolare dell’ “utile signore” sulla chiesa di giuspatronato di Santa Maria dell’Itria, elevata a insigne collegiata, con bolla da Firenze del 15.9.1440 di papa Eugenio IV, al tempo di Roberto d’Angiò. Dal “Regesto Vaticano per la Calabria” di p. F. Russo, dalla Relazione ad Limina del 1592 di mons. Nicolò Orazi e dall’Archivio della R. Giurisdizione (vol. 2,n.91, a.109) risultava certo ed attuale il diritto ereditario del feudatario di Simeri di “presentare canonici e altri beneficiati semplici”, conformemente alla bolla papale, che ne riconosceva la “facultas presentandi”, in diretta associazione col diritto di patronato. Si trattava di un diritto onorifico, oneroso e utile del feudatario,il quale doveva garantire la funzionalità dell’edificio religioso e il sostentamento dei beneficiati (una sorta di compenso agli uffici dell’arciprete, del cantore, del tesoriere e degli altri 8 canonicati semplici). Non trattandosi di giuspatronato popolare, non necessitava dell’approvazione del vescovo. Il Vicario Generale del presule di Reggio (Annibale D’Affitto) si recò a Simeri “per eseguire la commissione del vescovo di Catanzaro (collatore ordinario jure primaevo et naturali), il quale anch’egli fu là standogli intorno gran numero di chierici di questa diocesi, armati di tutte le armi […] Successe un gran tumulto per l’arresto del capitano Tuxo di Cropani”, che parteggiava per la gente del luogo e sosteneva il principio della soggezione degli ecclesiastici all’ordinamento statale. Inoltre, secondo tradizione, l’attore era tenuto a seguire il foro del reo, per cui “contra laici non giudici ecclesiastici”!  Mons. Caracciolo rappresentò, con scarso successo, la controversia alla Gran Corte della Vicaria di Napoli e al papa Urbano VIII, sostenendo che il Preside Giovanni Eques, protetto dal cardinale  spagnolo Antonio Zapata Cineros, non rispettava le prerogative e le immunità ecclesiastiche. Nel contempo il vescovo di Belcastro apriva un altro contenzioso con la mensa vescovile di Catanzaro e col barone Cesare Marincola per il pagamento di alcune decime, in particolare quella sulle terre di Magliacane e del Marchesato, considerati veri e propri “granai di frumento”. Intanto i baroni e il clero, piccoli re e tiranni, con i loro privilegi e la sete di ricchezza, alimentavano la rabbia e il crescente malcontento popolare, che sovente sfociava in episodi di vero e proprio brigantaggio. Sulla costa, pastori, contadini, mendichi e prostitute aspettavano l’arrivo delle galee corsare per imbarcarsi come rinnegati o odalische nel Magrheb, e finivano per popolare interi quartieri in Barberia, a Tunisi e a Tripoli.
“All’armi, all’armi, ‘a campana sona!                                                                                                               Li Turchi su’ sbarcati alla marina.                                                                                                                          Si teni  scarpi vecchi, ti li soli,                                                                                                                   c’avimu ‘e fara nu lungu caminu.                                                                                                                    ’U patruna vena sempra de luntanu,                                                                                                        quannu sona ‘a campana e a genta  sinde cala alla marina!”
 Emblematiche sono le storie di Uccialì dell’Isola  e di Bassà Cicala, che per Luigi  Settembrini fu  colui che “fece nascere e fu occasione della congiura, alla quale presero parte alcuni Vescovi, alcuni baroni, molti ecclesiastici e molti banditi e se aveva un capo non fu il Campanella”, il cui sublime ardimento “parve follia”.  A dispetto anche dei molti tradimenti, come quello del capitano di Taverna Pompeo Mazza (a.1634) e dell’altro capitano Carlo Barracco, che, alleato con i Turchi,  a Capocolonna  taglieggiava civili, militari ed ecclesiastici.                                                                           Era  il tempo della guerra dei trent’anni (1618-48), dei processi  del Sant’Ufficio contro Tommaso  Campanella  “et alios fratres ordinis praedicatorum””, dei briganti Bruno Martino e Marco Berardi ( Re Marcore), della rivolta napoletana di Tommaso Aniello contro le gabelle  e dei tumulti antifeudali e antispagnoli in tutto il Regno.  Emuli calabresi di Masaniello furono il Cassanese Briola, il medico Cosimo Granito, Padre Camillo di Cerchiara,  il marinaio di Parghelia  Leonardo Drago e Carlo Pisano di Simeri, aiutante del Preside della Provincia: la cronaca di quegli avvenimenti ci è stata tramandata solo  dai resoconti di parte spagnola, in particolare dalle “Memorie Historiche della Città di Catanzaro” di Vincenzo D’Amato e dal “Diario contenente la storia delle cose avvenute nel Regno di Napoli negli anni 1647-53” di Francesco Capocelatro.                                
Castello Simeri, restauro 2015                                                                                      
 “Non vi fu luogo della Calabria, che con chimere fantastiche non sognasse di governarsi da Repubblica con proprie leggi […] Terminarono in fine le sciagure del Regno con l’arrivo di D. Giovanni d’Austria in Napoli, che domate le forze del Popolaccio, lo rimesse in obbedienza, rimanendo prigione il duca  di Ghisa, arrestato, mentre fuggiva e mandato in Spagna. […] Alcuni capi di quella gente vilissima, che ardì di muoversi in tempo che tutta la città di Catanzaro stava quieta, castigati con l’ultimo supplizio. […] La peste a Napoli del 1656 […] Una squadra di galere africana, condotta da un rinnegato della Terra, sbarcarono a Stallatì di notte, predaro le case senza fare schiavi perché gli abitanti si salvorno con la fuga. La Terra fu incendiata, le Chiese strapazzate con indecoro ..] e con essa Montauro e Gasperina villaggi […] A Catanzaro accorse Achille Minutolo cavaliero napolitano Preside della Provincia con quattrocento cavalli”, racconta sempre il D’Amato. Il quale riferisce che il Sindaco e gli Eletti di Catanzaro inviarono il signor Agazio di Somma da D. Iuan de Arcos per rappresentare “la voglia ardentissima della città d’impegnarsi sempre al servigio della Corona”, ricevendo la rassicurazione di “toda satisfacion, esperando lo continuereis siempre en observancia de vuestra antigua y incorruptible fielidad”.                 Giovanni D’Austria poteva dirsi più che soddisfatto dell’opera del principe Fabrizio Pignatelli, nominato Vicario Generale delle Calabrie, col compito di spegnere con le armi  gli ultimi focolai della rivolta plebea e contadina. Falliva la rivolta dei “lazzari” libertari e visionari inconsapevoli   -   declassata da B. Croce a moto plebeo “senza bussola e senza freno, senza capo né coda”  -   e veniva confermata la fedeltà alla corona spagnola.
Intanto a mons. Caracciolo era subentrato nell’amministrazione della diocesi catanzarese Fra’ Luca Castellini dei padri predicatori, seguito da mons.  Consalvo Caputo e poi, dal 1646 al 1656, dall’esperto latinista mons. Fabio Olivadesio. Così nella cronotassi  Cantisani.  Alla morte di mons. Sirleto, ad aprile del 1635, la cattedra vacante di Squillace fu assegnata a mons. Giuseppe della Corgna; a Santa Severina s’insediava mons. Niceforo Melisseno Comneno, seguito da Juan Pastor e da Girolamo Carafa, mentre la sede di Belcastro veniva occupata da Antonio Ricciulli e poi da Filippo Crino, Bartolomeo Gessi, Francesco Clerico e Carlo Sgombrino.
Dal minuzioso lavoro di mons. Cantisani apprendiamo che alla morte del vescovo Consalvo, il Capitolo e il clero catanzarese supplicarono il pontefice perché scegliesse un pastore che si distinguesse per “pietà e amabilità”. A maggio del 1648,però, l’arcidiacono e i canonici della cattedrale di Catanzaro indirizzavano al papa una circostanziata denuncia di simonia contro il vescovo Olivadesio, il quale, per 50 ducati,  aveva assolto un assassino (di un monaco francescano) che aveva anche  “estratto” dalla chiesa di Sant’Agostino tale Cesare Ligudi di Simeri, in aperta violazione dell’antico diritto d’asilo. La Congregazione dei Vescovi sospese l’Olivadesio, sospettato  anche di relazione particolare col suo confessore, p. Giovanni Battista da Squillace, ministro dei Frati Riformati . La sua morte nel 1656 fu intesa come una liberazione, secondo l’opinione di Cesare Mulè (Una storia di Catanzaro); gli succedeva il milanese  Filippo Visconti, seguito nel 1664 dal poeta marinista petrarcheggiante Agazio di Somma, il quale  -  secondo la ricostruzione di Francesco Russo  -  aveva dovuto per tempo ottenere la dispensa a ricevere gli ordini sacri, essendosi macchiato di omicidio, in gioventù. Fedelissimo alla corona spagnola già come “messo cittadino”, è ricordato soprattutto per la sua copiosa produzione letteraria, in particolare per il poema “Dell’America, canti cinque”, per “L’arte del vivere felice” e per  l’ “Historico racconto dei tremoti della Calabria dell’anno 1638 fino all’anno 1641”, oltre che per un “Discorso sull’origine dell’anno santo” (chiaro esempio d’inculturazione delle fede, con riferimento al centesimus annus degli antichi e alla derivazione del Natale dalla festa del Sol Invictus o solstizio d’inverno).
“Per entrambe le Provincie si sollevarono dalle ruine densissime polverose caligini: per tutto lo ..............
spavento, la confusione, la fretta di chi fuggiva […] verso il vespro si racquetò in insidioso silenzio che macchinava l’insulto della sotterranea tempesta […] Crollò la terra, i v

illaggi, le città, le castella si squarciarono e precipitarono …”.                                                                                           Indiscutibilmente grandi furono i suoi meriti letterari, poiché non fu un semplice rimatore marinista, ma piuttosto un originale riformatore della poetica barocca, al pari di Gabriello Chiambrera e Federico della Valle, tanto che la sua opera principale viene accostata alla “poesia petrosa” di Campanella, al “suono basso” dei poeti vernacolari come Donnu Pantu, a G.V. Gravina e finanche alla “melodia” del Metastasio.  In appendice all’America pubblicò un “discorso” di lode del poema mitologico dell’Adone di G.B. Marino, dove si canta la storia degli ardenti amori di Venere nei giardini dei sensi e dell’intelletto di Cipro.
Per i viaggiatori italiani e stranieri  in tour in una terra appena funestata dai briganti, la Calabria era una sorta di Eldorado, ricco di ogni bene materiale, di miniere, sorgenti, olio,vino, mandrie di animali, giardini (delle Esperidi), biade, lino,cannameli, seta, manna, “fruttiferi alberi e odoriferi arboscelli”. E Ferdinando Ughelli, nella sua Italia Sacra, così rafforzava lo stereotipo encomiastico della terra felice abitata da uomini fieri: “La Calabria, per l’aria deliziosa e per la fertilità del suolo,e infine per l’amenità delle delizie e l’abbondanza incredibile di ogni ben, di gran lunga supera le regioni non della sola Italia, ma di tutto il mondo”.
Se è  vero che nelle città demaniali era alquanto florida l’industria serica (mille telai a Catanzaro, col consolato dell’arte della seta), le campagne e il popolo minuto  sperimentavano ogni giorno  i morsi della fame,  le vessazioni, il fiscalismo parassitario, il diffuso mercato degli schiavi bianchi e neri, la malaria e  le immancabili calamità naturali (terremoti, alluvioni e carestie), che insieme bloccavano ogni possibilità di sviluppo e procuravano  decadimento economico e sociale. In una parola: miseria, morale e materiale. Che proseguirà con gli Asburgo, con i Borbone e finanche con i Piemontesi, intramezzata da brevi parentesi d’illusorio riscatto popolare.


Prof. Marcello Barberio

Riceviamo e pubblichiamo

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