SANTI MONACI E CHIERICI SELVAGGI
Nell’estate
del 1623, il lucchese Lorenzo Cenami prendeva possesso a Catanzaro dell’ufficio
di Governatore della Calabria Ultra, in esecuzione della nomina di Filippo IV di Spagna, e subito
sperimentava l’ostilità dei baroni e dell’alto clero, come emerge chiaramente dalle
Visite ad Limina dei vescovi di Catanzaro(Fabrizio Caracciolo), di
Squillace (Fabrizio Sirleto), di Belcastro (Girolamo Ricciulli), dell’ Isola (
Ascanio Castagna) e di Santa Severina (Diego Cabeza de Vaca). Quest’ultima diocesi metropolitana comprendeva la città di Crotone e le
suffraganee di Umbriatico, Cerenzia, Gallipoli e dell’Isola; Belcastro comprendeva anche i villaggi di Villa Aragona
e Sant’Angelo, abitati prevalentemente da profughi albanesi e dagli ebrei (marrani)
sfuggiti agli editti di espulsione del 1492 e del 1510. La diocesi di Catanzaro
era suffraganea
della metropolìa di Reggio Calabria e comprendeva 8 foranìe, 6 istituti religiosi maschili, 2
monasteri domenicani femminili, 3 conventi delle Clarisse (di Santa Chiara,
della Stella e delle Convertite o
“pentite” della Maddalena) e un
numero esorbitante di associazioni e confraternite. In base al trattato di
Barcellona del 1529 tra papa Clemente VII e l’imperatore Carlo V, delle 24
diocesi calabresi erano di presentazione regia gli ordinari di Tropea, Cassano,
Reggio e Crotone, mentre gli altri vescovi erano di esclusiva nomina
pontificia. A Catanzaro, a Simeri, a Cropani, a Belcastro e a Santa Severina
erano ancora attive nelle “judeche” alcune
comunità ebraiche - col
ruolo di “banchieri” (a usura) a sostegno della non florida economia locale -
fortemente caratterizzate da un’ aspra conflittualità con la maggioranza
cattolica della popolazione, specie durante la settimana santa, quando solevano
“cagionare molti inconvenienti”, in associazione col risus paschalis. Infatti, durante
la liturgia pasquale, il prete si trasformava nella sua antitesi comica del
giullare plebeo, per suscitare la grassa ilarità dei fedeli, con buffonesche sconcezze,
mimiche e verbali, soprattutto a sfondo sessuale. Si trattava, verosimilmente, della
stratificazione folklorica di un antico rito pagano come la festa dei folli di
ascendenza naturalistica, costantemente condannato nelle disposizioni “colte”
dei sinodi calabresi dei secoli XVI e XVII.
Nell’Archivio
Generale Agostiniano di Roma (A.G.A., Cc 13, f.153) è custodita la lettera del
27.3.1659 del vescovo Visconti di Catanzaro con la quale invitava il vicario
foraneo di Simeri a eliminare con
adeguato zelo il fanatismo religioso e la credulità popolare durante la
rappresentazione della passione di Cristo della Settimana Santa, quando
“drappelli di giovani vestiti da soldati romani e cortei di giudei, con la loro
mimica suscitavano risi e lazzi più che devozione”- In altre lettere (f.225) lo stesso prelato
(di provenienza milanese) scriveva al confratello vicario di Taverna: “Viviamo
in modo che le chiese sono fatti postriboli e lupanari, non vergognandosi di
tenervi letti e donne impudiche con molta offesa del Creatore […] L’immunità stessa ci fa più
insolenti perciocché ivi, armati e dalla porta o poco longi dalla chiesa,
oprano molti scandali e necessitano li nemici a star lontano [..] giochi,
bagordi, crapule, cantilene oscene”. Infine, alla Congregazione dei Vescovi
comunicava, in ossequio alle disposizioni tridentine: “Non vi è casa che non
habbi clerico, non vi è clerico che non habbi donatione, non vi è donatione che
non sia finta, non vi è fintione che non generi travagli con i regij, con la
communità e con i parenti vedendo il tutto dovuto al clerico”. (Cfr,” Un milanese nella Calabria vicereale”,
a cura di Donatella Gagliardi).
Dall’ “Epistolario Ufficiale del governatore Cenami”
e dal “Cunto del Real Thesoriero di
Calabria Ultra” apprendiamo che il
sistema difensivo calabrese contro le nuove ondate delle incursioni piratesche turche, dopo l’effimera vittoria di Lepanto
del 1571, era così strutturato: 339 torri di guardia costiera (49 torri di
avvistamento e di presidio in Calabria
Ultra, di cui 18 dall’Alli al Neto), castelli “marittimi” , provvisti di adeguata artiglieria, affiancati
dalla compagnia spagnola della piazzaforte di Crotone e dalle compagnie di
cavalleria della milizia di Papanice, Stalettì e Catanzaro, acquartierate a 4
miglia dalla costa di Simeri e di Cropani e sul Tacina. Nella sola marina di
Catanzaro insistevano, sin dal tempo dei viceré Pedro de Toledo e Pedro de Ribera,
una torre angioina, la daziaria e due cavallare, di cui una a La Petrizia.
Incursione saracena
Le comunità
locali erano oberate da un’infinità di pesantissimi balzelli, che servivano a
sostenere lo sforzo bellico spagnolo e l’opulenza dei nobili e delle mense
vescovili: i contadini erano piegati all’asservimento del villanaggio o
costretti ad abbandonare i casali, per sfuggire alle vessazioni del sistema feudale, come la decima, la fida,gli
angari e parangari, il diritto di piazza e di caricatura, i diritti proibitivi
(jus proibendi mulini, trappeti e acque
pubbliche) e particolari, come quello relativo alle chiese collegiate, sulle
quali il patrono vantava il diritto della provvista ecclesiastica. Così a
Cropani, a Simeri, a Squillace e all’Isola.
Il
Governatore si scontrò subito col Preside della Regia Udienza e con la cupidigia dei funzionari regi, dei
collatori ecclesiastici e baronali (con i Ravaschieri di Simeri, Cropani e Satriano, con i Sersale di
Belcastro , i Borgia di Squillace, i Ruffo della contea di S. Severina, i
Cicala di Gimigliano e Tiriolo, tutti titolari della giurisdizione penale del
mero e misto imperio), ma soprattutto con l’ignoranza dei monaci e del clero
secolare e con la corruzione nei tribunali locali, laici e religiosi, competenti
anche sui benefici e sui regi patronati.
Dalle ispezioni
delle visite triennali dei vescovi (imposte dal Concilio di Trento) emerge che diversi parroci sottoscrivevano gli atti
col semplice segno di croce, altri non sapevano celebrare messa e non avevano
cognizione dei libri parrocchiali, oltre a trascurare la custodia degli arredi
e dei paramenti e a eludere l’obbligo della residenza, preferendo vivere in
luoghi più salubri e più comodi. Perduravano abusi e immoralità, mentre diverse
chiese andavano in lenta rovina a causa dell’usura del tempo e dell’incuria
generale. “Il numero dei chierici
continuava ad essere pletorico. Solo poco più di un terzo, però, erano ordinati
in sacris. Tra gli altri ..[…] i diaconi
o chierici selvaggi e i chierici coniugati […] godevano della
esenzione delle tasse e non erano soggetti al foro civile”, ha confermato
recentemente mons. Antonio Cantisani, in “ Vescovi
a Catanzaro (1582-1686)”. Alle stesse conclusioni era giunto anche Augusto Placanica (“Storia della Calabria”) trattando del clero postridentino
regionale: “chierici corrotti, duellanti,protettori di banditi o banditi essi
stessi […]nonostante le condanne dei sinodi diocesani e dei concili
provinciali. I chierici selvaggi, per lo più di provenienza aristocratica,
erano esenti da imposte e gabelle, violenti,perturbatori dell’ordine pubblico
[…] rappresentavano il 64% del clero secolare.” Secondo i dati della Relationes
205 del 1636 di mons. Caputo (Arch. Seg. Vat, Congr. del Concilio), a fronte di
una popolazione di 29.416 abitanti della diocesi di Catanzaro, il clero
secolare era costituito da 933 unità
(3,1%), di cui 369 sacerdoti (1,2%) e 564 chierici (1,9%).
Padre
Giovanni Fiore (“Calabria Illustrata”,
1691), però, racconta anche di ecclesiastici di santa vita, dotati di una solida spiritualità penitenziale, come
fra’ Girolamo di Albi, fra’ Lorenzo di Cutro, fra’ Bonaventura dell’Isola,
frat’Antonio di Magisano, fra’ Bonaventura di Zagarise, fra’ Bernardo de Cumis
di Catanzaro, frat’Antonio Piccoli di Squillace, diversi monaci dell’ordine
francescano del beato Paolo D’Ambrosio di Cropani e soprattutto il profetico fra’
Silvestro di San Pietro di Taverna, “arricchito di gran lume per conoscere le
cose occulte”. Dimorò nel convento dei
cappuccini di Simeri per oltre 25 anni e , “singolarissimo nell’umiltà” e nella
perpetua vita quaresimale, si faceva chiamare col nome del bandito Scarcella,
mentre “quelli di Simmari portavano opinione che per la sua sola santità Iddio
conferiva loro ogni bene”. Un giorno, il duca di Girifalco inviò un suo
delegato, “ con mediocre comitiva di gente armata, per consultare con Fra’
Silvestro cose di premura, ma quei della Terra, rapportando fossero venuti per
portarsi l’uomo di Dio, corsero a folla in convento” , costringendo il messo a
tornarsene indietro.
Dalle “Visite” scopriamo anche che, il basso
clero e gli ordini religiosi mendicanti vivevano in povertà, nel rispetto delle
costituzioni francescane, che prevedevano la “cerca” da parte degli oblati con la bisaccia e il somarello, per la sussistenza dei frati e per sfamare i
poveri nel bisogno e in tempo di carestia. Incredibilmente anche nel campo
dell’oblazione monacale si registravano abusi e nefandezze varie da parte di vagabondi
e mestieranti travestiti da quaestores
elemosinarum o da eremiti, che giravano per le campagne e i paesi imbonendo
le persone semplici con racconti mirabolanti
a fini estortivi, per poi vendere la mercanzia a privati e agli stessi
ospedaletti di mendicità. Sempre nell’Epistolario del Cenami, alla data dell’8
novembre 1623 è riportata la cronaca dell’aspro conflitto tra il principe
Ettore Ravaschieri, feudatario di Simeri, e il vescovo di Catanzaro Fabrizio
Caracciolo, a causa del diritto particolare dell’ “utile signore” sulla chiesa
di giuspatronato di Santa Maria dell’Itria, elevata a insigne collegiata, con
bolla da Firenze del 15.9.1440 di papa Eugenio IV, al tempo di Roberto d’Angiò.
Dal “Regesto Vaticano per la Calabria”
di p. F. Russo, dalla Relazione ad Limina
del 1592 di mons. Nicolò Orazi e dall’Archivio
della R. Giurisdizione (vol. 2,n.91, a.109) risultava certo ed attuale il
diritto ereditario del feudatario di Simeri di “presentare canonici e altri
beneficiati semplici”, conformemente alla bolla papale, che ne riconosceva la “facultas
presentandi”, in diretta associazione col diritto di patronato. Si trattava di un
diritto onorifico, oneroso e utile del feudatario,il quale doveva garantire la
funzionalità dell’edificio religioso e il sostentamento dei beneficiati (una
sorta di compenso agli uffici dell’arciprete, del cantore, del tesoriere e
degli altri 8 canonicati semplici). Non trattandosi di giuspatronato popolare,
non necessitava dell’approvazione del vescovo. Il Vicario Generale del presule di
Reggio (Annibale D’Affitto) si recò a Simeri “per eseguire la commissione del
vescovo di Catanzaro (collatore ordinario jure primaevo et naturali), il quale
anch’egli fu là standogli intorno gran numero di chierici di questa diocesi,
armati di tutte le armi […] Successe un gran tumulto per l’arresto del capitano
Tuxo di Cropani”, che parteggiava per la gente del luogo e sosteneva il
principio della soggezione degli ecclesiastici all’ordinamento statale.
Inoltre, secondo tradizione, l’attore era tenuto a seguire il foro del reo, per
cui “contra laici non giudici ecclesiastici”! Mons. Caracciolo rappresentò, con scarso successo,
la controversia alla Gran Corte della Vicaria di Napoli e al papa Urbano VIII,
sostenendo che il Preside Giovanni Eques, protetto dal cardinale spagnolo Antonio Zapata Cineros, non
rispettava le prerogative e le immunità ecclesiastiche. Nel contempo il vescovo
di Belcastro apriva un altro contenzioso con la mensa vescovile di Catanzaro e
col barone Cesare Marincola per il pagamento di alcune decime, in particolare
quella sulle terre di Magliacane e del Marchesato, considerati veri e propri
“granai di frumento”. Intanto i baroni e il clero, piccoli re e tiranni, con i loro privilegi e la sete di ricchezza,
alimentavano la rabbia e il crescente malcontento popolare, che sovente sfociava
in episodi di vero e proprio brigantaggio. Sulla costa, pastori, contadini,
mendichi e prostitute aspettavano l’arrivo delle galee corsare per imbarcarsi
come rinnegati o odalische nel Magrheb, e finivano per popolare interi quartieri in
Barberia, a Tunisi e a Tripoli.
“All’armi, all’armi, ‘a campana
sona!
Li Turchi su’ sbarcati alla marina.
Si teni scarpi vecchi, ti li
soli, c’avimu ‘e fara nu
lungu caminu. ’U
patruna vena sempra de luntanu, quannu
sona ‘a campana e a genta sinde cala
alla marina!”
Emblematiche sono le storie di Uccialì
dell’Isola e di Bassà Cicala, che per Luigi
Settembrini fu colui che “fece nascere e fu occasione della
congiura, alla quale presero parte alcuni Vescovi, alcuni baroni, molti
ecclesiastici e molti banditi e se aveva un capo non fu il Campanella”, il cui
sublime ardimento “parve follia”. A dispetto anche dei molti tradimenti, come
quello del capitano di Taverna Pompeo Mazza (a.1634) e dell’altro capitano
Carlo Barracco, che, alleato con i Turchi,
a Capocolonna taglieggiava
civili, militari ed ecclesiastici.
Era il tempo della guerra dei trent’anni (1618-48), dei
processi del Sant’Ufficio contro Tommaso Campanella “et alios fratres ordinis praedicatorum””, dei
briganti Bruno Martino e Marco Berardi ( Re Marcore), della rivolta napoletana
di Tommaso Aniello contro le gabelle e
dei tumulti antifeudali e antispagnoli in tutto il Regno. Emuli calabresi di Masaniello furono il
Cassanese Briola, il medico Cosimo Granito, Padre Camillo di Cerchiara, il marinaio di Parghelia Leonardo Drago e Carlo Pisano di Simeri,
aiutante del Preside della Provincia: la cronaca di quegli avvenimenti ci è
stata tramandata solo dai resoconti di
parte spagnola, in particolare dalle “Memorie
Historiche della Città di Catanzaro” di Vincenzo D’Amato e dal “Diario contenente la storia delle cose
avvenute nel Regno di Napoli negli anni 1647-53” di Francesco Capocelatro.
Castello Simeri, restauro
2015
“Non vi fu luogo della Calabria, che con
chimere fantastiche non sognasse di governarsi da Repubblica con proprie leggi
[…] Terminarono in fine le sciagure del Regno con l’arrivo di D. Giovanni
d’Austria in Napoli, che domate le forze del Popolaccio, lo rimesse in obbedienza,
rimanendo prigione il duca di Ghisa,
arrestato, mentre fuggiva e mandato in Spagna. […] Alcuni capi di quella gente
vilissima, che ardì di muoversi in tempo che tutta la città di Catanzaro stava
quieta, castigati con l’ultimo supplizio. […] La peste a Napoli del 1656 […]
Una squadra di galere africana, condotta da un rinnegato della Terra,
sbarcarono a Stallatì di notte, predaro le case senza fare schiavi perché gli
abitanti si salvorno con la fuga. La Terra fu incendiata, le Chiese strapazzate
con indecoro ..] e con essa Montauro e Gasperina villaggi […] A Catanzaro
accorse Achille Minutolo cavaliero napolitano Preside della Provincia con
quattrocento cavalli”, racconta sempre il D’Amato. Il quale riferisce che il
Sindaco e gli Eletti di Catanzaro inviarono il signor Agazio di Somma da D.
Iuan de Arcos per rappresentare “la voglia ardentissima della città
d’impegnarsi sempre al servigio della Corona”, ricevendo la rassicurazione di “toda
satisfacion, esperando lo continuereis siempre en observancia de vuestra antigua
y incorruptible fielidad”. Giovanni D’Austria poteva dirsi
più che soddisfatto dell’opera del principe Fabrizio Pignatelli, nominato Vicario
Generale delle Calabrie, col compito di spegnere con le armi gli ultimi focolai della rivolta plebea e
contadina. Falliva la rivolta dei “lazzari”
libertari e visionari inconsapevoli - declassata
da B. Croce a moto plebeo “senza bussola e senza freno, senza capo né coda” - e veniva confermata la fedeltà alla corona
spagnola.
Intanto a
mons. Caracciolo era subentrato nell’amministrazione della diocesi catanzarese Fra’
Luca Castellini dei padri predicatori, seguito da mons. Consalvo Caputo e poi, dal 1646 al 1656, dall’esperto
latinista mons. Fabio Olivadesio. Così nella cronotassi Cantisani. Alla morte di mons. Sirleto, ad aprile del
1635, la cattedra vacante di Squillace fu assegnata a mons. Giuseppe della
Corgna; a Santa Severina s’insediava mons. Niceforo Melisseno Comneno, seguito
da Juan Pastor e da Girolamo Carafa, mentre la sede di Belcastro veniva occupata
da Antonio Ricciulli e poi da Filippo Crino, Bartolomeo Gessi, Francesco
Clerico e Carlo Sgombrino.
Dal
minuzioso lavoro di mons. Cantisani apprendiamo che alla morte del vescovo
Consalvo, il Capitolo e il clero catanzarese supplicarono il pontefice perché
scegliesse un pastore che si distinguesse per “pietà e amabilità”. A maggio del
1648,però, l’arcidiacono e i canonici della cattedrale di Catanzaro indirizzavano
al papa una circostanziata denuncia di simonia contro il vescovo Olivadesio, il
quale, per 50 ducati, aveva assolto un assassino
(di un monaco francescano) che aveva anche “estratto” dalla chiesa di Sant’Agostino tale Cesare
Ligudi di Simeri, in aperta violazione dell’antico diritto d’asilo. La
Congregazione dei Vescovi sospese l’Olivadesio, sospettato anche di relazione particolare col suo
confessore, p. Giovanni Battista da Squillace, ministro dei Frati Riformati . La
sua morte nel 1656 fu intesa come una liberazione, secondo l’opinione di Cesare
Mulè (Una storia di Catanzaro); gli
succedeva il milanese Filippo Visconti,
seguito nel 1664 dal poeta marinista petrarcheggiante
Agazio di Somma, il quale - secondo la ricostruzione di Francesco
Russo -
aveva dovuto per tempo ottenere la dispensa a ricevere gli ordini sacri,
essendosi macchiato di omicidio, in gioventù. Fedelissimo alla corona spagnola
già come “messo cittadino”, è ricordato soprattutto per la sua copiosa produzione
letteraria, in particolare per il poema “Dell’America,
canti cinque”, per “L’arte del vivere felice” e per l’ “Historico
racconto dei tremoti della Calabria dell’anno 1638 fino all’anno 1641”,
oltre che per un “Discorso sull’origine
dell’anno santo” (chiaro esempio d’inculturazione delle fede, con
riferimento al centesimus annus degli
antichi e alla derivazione del Natale dalla festa del Sol Invictus o solstizio
d’inverno).
“Per
entrambe le Provincie si sollevarono dalle ruine densissime polverose caligini:
per tutto lo ..............
spavento, la confusione, la fretta di chi fuggiva […] verso il
vespro si racquetò in insidioso silenzio che macchinava l’insulto della
sotterranea tempesta […] Crollò la terra, i v
illaggi, le
città, le castella si squarciarono e precipitarono …”. Indiscutibilmente
grandi furono i suoi meriti letterari, poiché non fu un semplice rimatore
marinista, ma piuttosto un originale riformatore della poetica barocca, al pari
di Gabriello Chiambrera e Federico della Valle, tanto che la sua opera
principale viene accostata alla “poesia
petrosa” di Campanella, al “suono
basso” dei poeti vernacolari come Donnu Pantu, a G.V. Gravina e finanche
alla “melodia” del Metastasio. In
appendice all’America pubblicò un
“discorso” di lode del poema mitologico dell’Adone di G.B. Marino, dove si canta la storia degli ardenti amori
di Venere nei giardini dei sensi e dell’intelletto di Cipro.
Per i
viaggiatori italiani e stranieri in tour
in una terra appena funestata dai briganti, la Calabria era una sorta di Eldorado,
ricco di ogni bene materiale, di miniere, sorgenti, olio,vino, mandrie di animali,
giardini (delle Esperidi), biade, lino,cannameli, seta, manna, “fruttiferi
alberi e odoriferi arboscelli”. E Ferdinando Ughelli, nella sua Italia Sacra, così rafforzava lo
stereotipo encomiastico della terra felice abitata da uomini fieri: “La
Calabria, per l’aria deliziosa e per la fertilità del suolo,e infine per
l’amenità delle delizie e l’abbondanza incredibile di ogni ben, di gran lunga
supera le regioni non della sola Italia, ma di tutto il mondo”.
Se è vero che nelle città demaniali era alquanto
florida l’industria serica (mille telai a Catanzaro, col consolato dell’arte
della seta), le campagne e il popolo minuto
sperimentavano ogni giorno i
morsi della fame, le vessazioni, il
fiscalismo parassitario, il diffuso mercato degli schiavi bianchi e neri, la
malaria e le immancabili calamità
naturali (terremoti, alluvioni e carestie), che insieme bloccavano ogni possibilità
di sviluppo e procuravano decadimento
economico e sociale. In una parola: miseria, morale e materiale. Che proseguirà
con gli Asburgo, con i Borbone e finanche con i Piemontesi, intramezzata da brevi
parentesi d’illusorio riscatto popolare.
Prof. Marcello Barberio
Riceviamo e pubblichiamo
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