martedì 15 novembre 2011
Usanze, credenze, riti sui defunti nella tradizione popolare
Il culto dei morti è da sempre elemento principale di tutte le culture sacre
subalterne popolari e presente in molti aspetti folkloristici tradizioni ancora attuali. Questa ricerca sull’antropologia del lutto, ha lo scopo di individuare un archetipo comune al rituale funebre del cordoglio e alle sue varie manifestazioni.
Uno tra i più significativi rituali del cordoglio è quello della lamentazione funebre le cui tracce si perdono nella notte dei tempi. Per poter introdurci nel viaggio verso i sacri “lynos” dobbiamo però partire dalle tradizioni lucane, forse la regione che più di tutte ha conservato il ricordo di questo antico rituale.
Il lamento funebre lucano ed in particolare la “lamentazione professionale”, è una pratica in via di dissolvimento o praticamente già dissolta della quale rimane solo il vago racconto delle anziane donne rivisitato in un’ottica di malcostume o vergogna.Ancora oggi accade che al
dolore delle famiglie luttuate si unisca il cordoglio di altre persone,
soprattutto quelle che da poco son state colpite a loro volta da un lutto, ma
non si può parlare di vere lamentatici con l’accezione arcaica del termine, è
solo un modo per rivivere e riproporre il proprio dolore personale o esprimere
cordoglio a persone che, anche se non strettamente legate da parentela, erano
comunque conosciute nel piccolo paese ove vivevano. Del resto non possiamo
dimenticarci il contesto geografico dal quale parte questa ricerca: i paesi più
interni della Basilicata ove isolamento e arretramento fanno ancora avvertire al
contadino la sua stretta dipendenza dalle indomabili forze naturali(A. di Nola,
1976). E’ proprio questo status vivendi che ha permesso il perdurare di questi
antichissimi ricordi, poi in parte trasformati dall’influenza
cristiano-cattolica in una forma sincretica che è tipica del Cristianesimo
locale ed autoctono e che si esprime in quel cattolicesimo popolare intessuto di
influenze ed elementi “pagani”.Così il defunto anche
nell’aldilà continuerà a condurre una vita non molto dissimile da quella
terrestre “ora ti debbo dire cosa ti ho messo nella cassa:una camicia nuova, una
rattoppata, la tovaglia per pulirti la faccia all’altro mondo, due paia di
mutande una nuova e una con la toppa nel sedere, poi ti ho messo la pipa tanto
che eri appassionato al fumo”La lamentazione funebre poi sembrerebbe un rituale
legato al mondo agrestenoi contadini e le persone per bene andiamo
al cimitero e piangiamo sulle nostre tombe…le persone per bene vengono al
cimitero ma non piangono…le persone ricche piangono sì, ma non come noi
pacchiani, noi che siamo villani e contadini piangiamo di più….”Un particolare che ci ritornerà utile nel proseguo
dello studio.
Tutto il rituale segue delle ben precise regole che fanno della tradizione una
vera e propria “tecnica del pianto”. La lamentazione
si presenta con un testo di cui “si sa già cosa dire”, secondo modelli
stereotipati. Normalmente non appaiono elementLa lamentazione
si presenta con un testo di cui “si sa già cosa dire”, secondo modelli
stereotipati. Normalmente non appaiono elementi cristiani, invocazioni a Gesù,
alla Vergine, ai Santi, anzi…vi è quasi una forma di protesta nei loro confronti
“oh che tradimento ci hai fatto Gesù”La prima fase è
quella del ricordo del defunto “o marito mio buono e bello, come ti penso” poi
il suo lavoro la lamentatrice fa sempre riferimento al tema delle mani del morto“sei morto con la
fatica alle mani”, poi il ricordo di tempi belli “quanne scimme a” per poi
inserire frasi sarcastiche del tipo “oh il vecchio che eri” per persone giovani
o “oh che male cristiane” per indicare uomo d’abbene.Poi viene la descrizione
della condizione in cui viene a trovarsi la famiglia, così per la neo sposa il
lamento delle nozze non ancora consumate, per la vedova il duro lavoro che
l’aspetterà, per i figli la mancanza del padreper poi avere quasi un piccolo
rimprovero per la morte prematura “come mi lasci in mezzo alla via con tre
figli”Si passa poi al
modulo “ora vien tal dei tali” che a sua volta risponde “chi è morto” per
infine ricordare le vicende tra il defunto e questa persona “…non ti verrà più a
chiamare alle 3 del mattino…”
Particolare importanza acquista quella che potremmo definire la mimica del
cordoglio, l’oscillazione corporea, perfettamente integrata al suono, come in
moltissime tradizioni sciamaniche afro-amerinde, con una funzione quasi ipnogena
( E. De Martino, 1959) molto simile anche a quella delle lamentatrici
palestinesi o arabe.
Interessante è la mimica del fazzoletto agitato sul corpo del defunto per poi
essere portato al naso in una continua incessante ripetizione dell’elemento
gestuale.Anche questa
gestualità avrebbe un atavico archetipo, così infatti la ritroviamo tra le
lamentatici egizie. Qui il “gesto” sembrerebbe chiaramente destinato ad una
forma di protezione dal defunto: Un solo braccio è portato verso il capo mentre
l’altro si distende avanti con la palma della mano rovesciata. Gesto che poi ha
assunto una valenza di saluto più che di difesa.Tradizioni rituali di questo tipo sono presenti
anche in altre parti di Italia, quasi ad individuare un comune denominatoreE’ così ad esempio simili tradizioni le troviamo
in Sardegna o più lontano in Brianza ove Il curato di Casiglio scrive come l'uso
della lamentazione funebre sia ancora ben presente nel suo borgo, ancora nel XV
secolo, benché proibito, e sarà lo stesso Carlo Borromeo che, assistendo ad un
funerale a Predama, in Val Varrone, rimase fortemente sconcertato.Le prefiche le ritroviamo nel
leccese ove sono chiamate
“repite” e nell’area abruzzese molisana.Tradizioni simili
sono presenti anche in Valtellina ed in Sardegna. Antonio Bresciani così ci
descrive l’usanza tra le donne sarde:“In sul primo entrare, al defunto,
tengono il capo chino, le mani composte, il viso ristretto, gli occhi bassi e
procedono in silenzio…
Secondo il rapporto annuale "BCC Mediocrati" in Calabria si registra il primato Nazionale della presenza di giovani imprenditori
lunedì 14 novembre 2011
La comunità di Sellia tutta loda il Signore per il Sacerdozio di Don Fabrizio Fittante Auguri!
Sabato 12 novembre
solenne Celebrazione di Sacerdozio nella Cattedrale di Catanzaro per Don
Fabrizio Fittante, ieri prima Santa Messe ufficiale nel borgo di Sellia,(suo paese natio) dove tutta
la comunità si e stretta intorno a questo meraviglioso ragazzo che sin da
piccolo ha da sempre manifestato la chiara intenzione di donare tutta la sua
vita a Gesù. Sellia è fiera di Don Fabrizio che sicuramente nel suo lunghissimo
servizio pastorale si farà sempre valere per il suo modo semplice,genuino ma
deciso nel far capire l’importanza di camminare sempre, di operare giornalmente
con Dio al proprio fianco. Anche l’amministrazione di Sellia e di Simeri Crichi
con a capo i rispettivi sindaci hanno voluto manifestare la gioia di questo
momento importante non solo per Don Fabrizio e i suoi familiari ma per la
comunità tutta che sicuramente sente forte il bisogno di nuovi pastori in
questa società che si stà smarrendo sempre di più allontanandosi dalla vera
luce che riscalda i cuori: la luce della Fede, la luce di DIO.
![]() |
foto di Salvatore Madia |
Auguri a Don Fabrizio e ai suoi familiari da parte di
Selliaracconta
Il Sacerdote è l'uomo della sintesi mirabile e cosmica dell'Amore
È infatti l'Amore radicale di Dio per l'uomo
e l'amore radicale dell'uomo per Dio
è il testimone delle nozze,
anzi è segno delle nozze stesse
e come lo Spirito Santo è l'Amore sponsale del Padre e del Figlio fatto persona
così il Sacerdote è segno dell'amore di Dio per l'uomo e dell'uomo per Dio fatto persona
è dunque profezia e speranza che l'amore
è più forte della morte
e che essa, la morte,
non è l'ultima parola dell'esistenza
ma semplicemente la dolorosa
e gioiosa porta che schiude
la pienezza del talamo di Dio e dell'uomo...
Di seguito alcune foto
Il modello Scopelliti da esportare come modello per L'Italia? Visto l'aria che si respira meglio stendere un velo.......
Uno, Versace. Due, Pittelli. Tre, D’Ippolito. Quattro (forse) Nucara. A Berlusconi e al Pdl, in questi giorni drammatici in cui la maggioranza di Governo continua ad essere appesa a un filo fragilissimo, quello della Calabria deve sembrare il bilancio di una sconfitta dolorosa.
Bilancio che brucia perché in Calabria B si è dissanguato investendo ben tre postazioni di rilievo: una pedina da viceministro e due da sottosegretario per Misiti, Belcastro e Galati. Come se non bastasse anche Francesco Nucara, calabrese e reggino (come Scopelliti) mette pensiero al Cavaliere precisando che il suo far parte della maggioranza è «sempre più labile». Insomma, il saldo della punta dello stivale è profondo rosso. Nonostante quel ben di dio dato da B in pasto al popolo famelico dei parlamentari.
Fatti i calcoli: rispetto alle ultime fiducie chieste dal Governo, la Calabria, da sola e senza il bisogno di nessun’altro, affonda il Governo facendo venir meno la fatidica soglia 316. Se B ha dato spazio a Scopelliti per avere in cambio sostegno ed appoggio ha preso un abbaglio.
E’ ancora presto per capire cosa accadrà nelle prossime ore e nei prossimi giorni a Roma, anche perché il Presidente della repubblica ha gettato sulla bilancia tutto il peso (grandissimo) del suo prestigio per evitare le elezioni anticipate considerate un possibile colpo mortale al Paese.
Ma intanto una cosa si può dire sulla Calabria. Il «laboratorio politico del modello Calabria» da esportare in tutto il resto del paese come soluzione di tutti i problemi e quadratura del cerchio delle criticità nazionali del cd, è diventato impresentabile e va nascosto sotto il tappeto come fanno con la polvere le domestiche infedeli.
Scopelliti quel modello lo ha valorizzato a più non posso. La «Calabria come modello da esportare» in Italia è diventato il mantra ripetuto da tutti gli uomini del Governatore che l’hanno declinato in tutti i casi promuovendolo a formula sacra, magica e quasi mistica che sarebbe stato sufficiente ripetere per raggiungere con successo la soluzione.
Invece, il Modello Calabria si sta rivelando privo di forza attrattiva, incapace di diventare centro di aggregazione politica. Non riesce ad avere la forza propulsiva che moltiplica speranze e progetti. Peggio, perde pezzi preziosi del corredo buono avuto inizialmente in dote e li perde a partire dal momento alto della vittoria elettorale regionale del Pdl guidato da Scopelliti.
Se non si vuole sostenere che il Modello Calabria sia un sistema a canne d’organo ognuna delle quali suona autonomamente dalle altre, per cui i parlamentari non c’entrano nulla con la Regione che non c’entra nulla con tutto il resto, bisogna riconoscere che tirando la rete si vedono più i buchi che i pesci.
L’invenzione del «Modello Calabria» non è stato uno strumento possente capace di consolidare progressivamente il potere, di sviluppare forza tale da impedire ripensamenti o tradimenti che dir si voglia, non ha creato nei punti alti del sistema consenso e ricompattamento, voglia di stare e crescere insieme. Quel modello sta ancora campando della rendita delle difficoltà di un’opposizione che non riesce a esprimere e diventare progetto.
L’alleanza Pdl-Udc, ha provocato isolamento a Scopelliti. Anche chi non l’ha capito subito (come chi scrive) deve riconoscere che l’Udc calabrese ha avuto una vista lunga. Scartata l’alleanza con l’armata Brancaleone del centro sinistra (Loiero, Adamo, Bova) interessata solo al successo di Caposuvero ha deciso un accordo non col centro destra ma direttamente, personalmente e soltanto con Scopelliti.
Un accordo che per il Governatore s’è trasformato in una trappola che gli ha drasticamente ristretto gli spazi di potere. Da qui la necessità di una gestione sempre più personale, sempre più da uomo solo al comando, rispetto al Pdl: è questo che spiega la resistenza di Scopelliti che non vuol mollare la carica di segretario regionale.
domenica 13 novembre 2011
Berlusconi si è dimesso... fine di una dinastia durata 17 anni
Da oggi alle 9 le consultazioni di Napolitano.Ieri sera Berlusconi al Quirinale accolto da una folla urlante. Fischi, insulti e monetine: «Dimissioni». La piazza canta Bella Ciao e l'inno di Mameli. Il premier se ne va da un'uscita secondaria|
Anzi, Berlusconi è stato, e continua a essere la Seconda Repubblica. Dopo la tempesta di Tangentopoli, i giornalisti abituati ai ritmi lenti e alle liturgie della Prima Repubblica non seppero far altro che canzonare il magnate televisivo che fantasticava di un «rassemblement» dei moderati e lo raffigurarono con il fez dei fascisti quando, all'inaugurazione di un ipermercato, il re della Tv commerciale disse che, se fosse stato romano, tra Fini e Rutelli avrebbe scelto Fini. Lo snobbavano, ma in due sole mosse Berlusconi aveva creato il bipolarismo italiano: il polo dei suoi devoti, e quello dei suoi nemici. Stava celebrando la «religione del maggioritario» in cui il leader incontrastato trascinava il suo popolo affamato di figure carismatiche, l'«Unto» che nel favore popolare trovava la sua consacrazione. In pochi mesi sbaragliò la sinistra che, nella dissoluzione dei vecchi partiti di governo, pensava di avere la vittoria in mano con la «gioiosa macchina da guerra» capeggiata da Achille Occhetto. Cominciò lì il grande trauma da cui la sinistra non si sarebbe più ripresa. La gioiosa macchina da guerra non prese nemmeno un voto in più di quelli incassati dalle formazioni che avevano ereditato le insegne del vecchio Pci più qualche frangia di sinistra multicolore. Non se ne capacitarono più. Cominciò la caccia al colpevole. E cominciò pure il vaniloquio contro il destino cinico e baro che prendeva a bersaglio qualunque cosa o personaggio potesse suggerire il senso di un sortilegio malvagio, più che di una normale elezione perduta: la calza sull'obiettivo della telecamera con cui Berlusconi avrebbe reso più soffice e seducente il suo messaggio video; la spilla appuntata sul bavero del doppiopetto berlusconiano che, secondo i più temerari esegeti della videocrazia, avrebbe riflesso sugli occhi degli sprovveduti telespettatori chissà quali bagliori subliminali. E poi addirittura l'ipnosi; Raimondo Vianello; Ambra; il karaoke; gli spot della pubblicità, e così via. La sinistra, che aveva sin lì coltivato solide radici popolari, cominciò a diffidare del popolo, della gente non inquadrata, degli elettori a suo insindacabile ed elitario parere imbottiti di stupidaggini pubblicitarie e schiavi della televisione.
Qualcuno riuscì persino a maledire il suffragio universale: in fondo, addirittura si disse e si scrisse, il popolo furente e indisciplinato aveva nella storia già scelto Barabba e sacrificato Gesù Cristo. È vero che nessuno ebbe il coraggio di paragonarsi esplicitamente a Gesù Cristo. Ma il «ladrone» era quello lì, l'arcitaliano che con un «rassemblement» molto simile a un'accozzaglia di avventurieri, con l'espediente furbo della doppia alleanza con il Msi (non ancora An) al Centrosud e con la Lega al Nord, con uno schieramento che non poteva vantare alcun legame con i partiti storici che avevano stilato la Costituzione italiana, aveva avuto l'ardire di traslocare Cologno Monzese a Palazzo Chigi. Con tutto un contorno di azzimati sconosciuti armati di un grottesco «kit del candidato» che la Roma politica e giornalistica accolse come i marziani, tutti con il blazer, tutti cloni del Capo, tutti obbedienti soldatini pescati nelle selezioni supervisionate dalla Publitalia di Marcello Dell'Utri. Non era la «rivoluzione liberale», promessa e mai arrivata, ma una rivoluzione antropologica sì: l'azienda che si fa potere politico, senza la mediazione dei partiti. «Colpo grosso», dissero e scrissero. Ma il fatto più grosso è che a sinistra non riuscirono a capire dove avessero sbagliato. E non ci riuscirono, per la verità, per tutti i diciassette anni successivi, fino a quando Berlusconi, immerso nei suoi errori, circondato da nugoli di cortigiani e cortigiane che gli hanno fatto perdere il senso della realtà, è sprofondato sì, ma solo per suo proprio demerito.
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