Ricerca storica dell'arch. Salvatore Tozzo La storia che vi racconto oggi è una storia drammatica. Tutti hanno scritto di Angelo Schipani detto Angelone che terrorizzo' la presila catanzarese da giugno ad agosto del '49. Sappiamo che alla fine lo catturo' Giuseppe Mustari di Magisano. E che fu condannato all'ergastolo per essersi macchiato, tra gli altri delitti, dell'uccisione di una giovane e bella ragazzina Sersalese diciassettenne, FRACESCHINA FALBO. Piu volte stuprata e ringhiusa per giorni in un frantoio di campagna. Di Angelone ne hanno scritto in molti ultimo dei quali l'avvocato Le Pera. Ma non ho mai visto il volto di questa povera fanciulla. E così mi sono messo a cercare i luoghi dove tutto avvenne. Il primo fabbricato che è citato è la chiesetta di Cipino di Sersale che si trova appena prima di arrivare al paese, a pochi metri dalla provinciale, provenienti da Zagarise. Seguendo poi la comunale e scendendo verso il fiume sulla sinistra noto un ceppo commemorativo. Mi chiedo se è quello il luogo dell'omicidio. Mi avvicinò e con mia grande sorpresa e commozione noto che si tratta proprio del cippo dedicato alla povera fanciulla. Ma ancora di più noto la sua foto. Finalmente posso guardare il volto di Franceschina. Il cippo reca scritto quanto segue: Barbaramente uccisa da esacrato mostro un angelo di purezza Franceschina Falbo a ricordo 27/11/1932 - 2 /7/1949. In allegato la sua foto, il cippo, e la chiesetta diroccata di cipino. Cara Franceschina con questo mio scritto ti ho voluto ricordare e far vedere il tuo volto innocente a tutti anche se sono passati 70 anni. Perché noi vogliamo ricordare la vittima non il mostro. Riposa in pace e che questo sia da monito a tutti gli uomini che si macchiano di femminicidio.
Ecco una rara testimonianza del terribile episodio raccolto dal Prof. e storico locale Marcello BarberioTale opportunità mi si è presentata casualmente nell’estate del 2005, con l’intervista a Pancrazio Agosto, un ultrasettantenne di Zagarise, emigrato a Milano.
“Nel ’40, per tre anni e mezzo, io e Angelone eravamo garzuni accordati nell’azienda dei Caravita, dove guardavamo capre, maiali e buoi, a Serre di Zagarise, assieme ad altri due forisi più grandi, di Magisano, un certo “Fiore da’ manca di cani” e “Franciscu tri grani”. Nel 1941 Angelone rubò agli stessi Magisanisi ceci, fave e formaggio, cioè la roba da mangiare portata dal paese, e si fece 3-4 mesi di carcere. Io dovetti procedere al riconoscimento dell’impronta delle sue scarpe: ad una c’erano i tacci bullette di ferro e i tundini e l’altra era liscia. C’erano le impronte che dal pagliaio portavano fuori. Era stato lui e lo dissi a Caravita…Insomma lo presero alla “Turrricedda”, una casetta colonica. Uscito di prigione si fece paisanu e collega di “Nicola u Melissarotu”, cioè della località di Melissaro.
Ad una turra rapirono Francesca Falbo, una ragazza che aveva rifiutato u Milissarotu: scoperchiarono il tetto della turra, uccisero il padre che si faceva forte col dubotti e rapirono la figlia. Per 15 giorni la tennero in una stalla e la violentavano. La nascondevano in una gibbia, dove scorreva il vino nelle vasche, sotto il pavimento; con una cannuccia ci jettavanu nu pocu ‘e latta in bocca (12), perché lei voleva lasciarsi morire e rifiutava il cibo. Gente malvagia. Ad un certo punto Angelone decise di lasciarla andare a casa sua a Sersale, ma la nonna di Nicola gli disse: “Tu la lasci andare e lei ci accusa tutti e va a finire che andiamo tutti in galera, tutto per i comodi vostri”. Angelone allora raggiunse la ragazza a Cipi, a un chilometro da piazza San Pasquale di Sersale, e la uccise con due colpi di fucile.
La ragazza non aveva potuto camminare veloce, perché zoppicava per le violenze subite. In quel luogo sorse una conicedda, dove la madre della ragazza andava tutti i giorni a piangere: si formava quasi una processione di gente, sia di Sersale che di Zagarise. Erano dolenti proprio! La vecchia campò poco e morì in carcere all’Isola. Anche Angelone morì in carcere a Catanzaro, perché fu preso a tradimento da Mustari in Sila, vicino Buturo. Lo ubriacò e durante la notte lo colpì alla testa col cozzo della gaccia, lo stordì e lo legò con uno sciartu.Poi lo consegnò alla legge.Al processo vennero i più grandi avvocati, pure di fuori. Poi, ti ho detto, morì in carcere. Nicola, il complice, fu condannato pure lui all’ergastolo.ma poi la pena gli fu ridotta a 33 anni di carcere, per buona condotta. Ho sentito dire che ora è libero e vive a Sersale. Mo’ dovrebbe essere anziano. Sono 45 anni che manco dal paese: partii nel ’60 e ora che sono pensionato torno solo l’estate e a Natale, ma non sempre. Sono stato accordatu per 8 anni: mi davano da cazare, dormire nel pagliaio o nella baracca, vestire e mangiare. Questa era la vita del forise. Partii soldato che non avevo una lira. Ai due forisi di Magisano, più grandi, Carovita dava 34 di grano al mese, senza altri viveri né soldi. Ad Angelone dava 14 di grano al mese, ma poteva mangiare alla mandria. Lui aveva un moschetto ad una canna e una pistola a tamburo.Il fucile da caccia per uccidere la ragazza glielo diede Nicola Scalise, u Melissarotu. Insomma, Angelone era uno che entrava e usciva dal carcere come da un albergo, ma sempre per cose di poco, per roba da mangiare, non per oro o denaro. In carcere aveva imparato a lavorare a maglia, all’uncinetto e ai ferri “ di legno d’erga”, duro, usato per fare scupuli e che quando u rumpi spara. Li modellava col coltello, era molto abile, e faceva anche il gancetto alla bacchettina. In paese vendeva i prodotti: calze di lana, borsette, maglie, che faceva mentre pascolava le bestie. Così sordiàva. Prima aveva una donna a Zagarise, una vedova, poi un’altra a Sellia, da cui ha avuto due figli, un maschio e una femmina: mi ricordo che l’amante se la curcava prena al pagliaio di Porticello delle Serre di Zagarise; io dovevo dormire all’aperto, fuori dal pagliaio. Durante la sua latitanza mi guardavo : dormivo all’aia sotto la paglia, per non essere scoperto durante la notte. Avevo testimoniato contro di lui, quando aveva rubato ai Magisanisi. Ma che potevo fare, ero un ragazzo. A Milano ho lavorato duro, ma ho trovato fortuna”.
A seguire A proposito della cattura del bandito, ho avuto l’occasione di conoscere la figlia di Mustari, la quale ha consegnato a una rivista scolastica (11) un suo articolo emblematico sin dal titolo: “Come Tatà prese Angelone”
“Angelo Schipani, originario di Sersale [,….] abbandonato dalla madre all’età di 10 anni, si era guadagnato da vivere facendo il capraio anche se per arrotondare rubava galli e biancheria […] Prima della maggiore età aveva collezionato 15-20 condanne […]divenne il terrore della Sila macchiandosi di efferati delitti […] Le forze dell’ordine gli davano la caccia, ma Angelone sembrava invincibile [….]
In questo clima di paura e per proteggere i suoi 5 figli e la moglie, mio padre maturò l’idea di catturare il bandito sanguinario nell’estate del 1949 […] vicino a Buturo. Una mattina, Tatà, mio fratello Francesco e mio zio Domenico si recarono in località Ariano per seminare il grano, quando intorno a mezzogiorno si presenta un uomo che cerca loro un po’ di pane perché digiuno da giorni.
La cosa si ripete nei giorni successivi: Angelone prende il pane, scambia qualche parola e si allontana nascondendosi in una baracca […]Un cognato di mio padre si premura di avvisare i carabinieri, i quali pensano ad una complicità di mio padre. Lo zio Domenico viene interrogato e picchiato a sangue: a mio padre non resta altro che scappare e catturare il bandito per dimostrare la sua innocenza. Si reca da Angelone, gli racconta l’episodio e per un po’ di tempo condivide con lui la fuga fino al punto che il bandito si fida dell’amico. La famiglia ha bisogno, i viveri sono terminati. E’ dunque necessario mettere in atto un piano per catturarlo […] In località Acqua delle donne il bandito si addormenta. Mio padre, tormentato da mille pensieri, si rende conto che deve tradire la fiducia d’Angelone,[…] gli sottrae il sacco contenente la pistola e lo colpisce a un ginocchio per immobilizzarlo. Per il dolore Angelone sviene e mio padre lo trascina verso la segheria dove c’erano gli operai. Ma durante il tragitto Angelone si aggrappa ad un pino e dà una spinta a mio padre, graffiandogli il viso,[…] nasce una colluttazione,[…]mio padre riesce a colpire il bandito con una pietra, facendogli perdere di nuovo i sensi. Cerca aiuto alla segheria, ma la gente per paura si allontana, solo un segantino gli offre una corda con cui legarlo, mentre un ragazzo va ad avvisare le guardie forestali di Buturo [.…] Trova il bandito che con un coltello sta tentando di tagliare la corda, fortunatamente arrivano le guardie forestali alle quali consegna armi e bandito. Alle 11 di quella mattina di luglio, scortato dai carabinieri in motocicletta, il sanguinario bandito viene condotto a Catanzaro, presso la Legione dell’Arma. Mio padre viene convocato in questura, tra il giubilo della gente, gli vengono tributati tutti gli onori del caso e viene medicato e rifocillato. Gli è offerto un lavoro di netturbino che rifiuta perché la sua vita è tra i boschi della Sila. In cambio accetta una ricompensa in denaro, di £ 300.000. Ed è così che mio padre, Giuseppe Mustari, libera la Sila da quell’alone di terrore che l’aveva avvolta per anni”. Per la figlia Giovannina, Mustari ricevette una ricompensa in denaro, per i giornali dell’epoca e per l’opinione pubblica, invece, intascò la “taglia” per il tradimento dell’amico. Infatti il bandito – come nella tradizione brigantesca – continuava a rappresentare l’ultima plebe, i subalterni, tra i quali persistevano valori culturali e ideologie come lo stereotipo del mito del fuorilegge, caricato dalle masse popolari di ruoli sociali e di aspettative straordinari.