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domenica 13 novembre 2011

Berlusconi si è dimesso... fine di una dinastia durata 17 anni


Da oggi alle 9 le consultazioni di Napolitano.Ieri sera Berlusconi al Quirinale accolto da una folla urlante. Fischi, insulti e monetine: «Dimissioni». La piazza canta Bella Ciao e l'inno di Mameli. Il premier se ne va da un'uscita secondaria|


Nel '94, nel video della sua epica «discesa in campo», Berlusconi magnificava l'Italia come «il Paese che amo». Diciassette anni dopo, captato in un'intercettazione telefonica, lo stesso Berlusconi non seppe frenare il rassegnato disgusto per l'Italia «Paese di m....». In questo capovolgimento emotivo si racchiude il senso di un'avventura politica che prometteva un nuovo «miracolo» e si è inabissato in una grande disillusione. L'ottimismo degli esordi, che contagiò e stregò molti italiani orfani della Prima Repubblica e smaniosi di un «nuovo inizio», ha la sua antitesi in un tramonto cupo e malinconico. Finisce, nel crepuscolo del berlusconismo, un'epoca della storia, della politica, della psicologia collettiva, dell'immaginario dell'Italia repubblicana. Si chiude la Seconda Repubblica, creata, plasmata, dominata dalla figura di Silvio Berlusconi.
Anzi, Berlusconi è stato, e continua a essere la Seconda Repubblica. Dopo la tempesta di Tangentopoli, i giornalisti abituati ai ritmi lenti e alle liturgie della Prima Repubblica non seppero far altro che canzonare il magnate televisivo che fantasticava di un «rassemblement» dei moderati e lo raffigurarono con il fez dei fascisti quando, all'inaugurazione di un ipermercato, il re della Tv commerciale disse che, se fosse stato romano, tra Fini e Rutelli avrebbe scelto Fini. Lo snobbavano, ma in due sole mosse Berlusconi aveva creato il bipolarismo italiano: il polo dei suoi devoti, e quello dei suoi nemici. Stava celebrando la «religione del maggioritario» in cui il leader incontrastato trascinava il suo popolo affamato di figure carismatiche, l'«Unto» che nel favore popolare trovava la sua consacrazione. In pochi mesi sbaragliò la sinistra che, nella dissoluzione dei vecchi partiti di governo, pensava di avere la vittoria in mano con la «gioiosa macchina da guerra» capeggiata da Achille Occhetto. Cominciò lì il grande trauma da cui la sinistra non si sarebbe più ripresa. La gioiosa macchina da guerra non prese nemmeno un voto in più di quelli incassati dalle formazioni che avevano ereditato le insegne del vecchio Pci più qualche frangia di sinistra multicolore. Non se ne capacitarono più. Cominciò la caccia al colpevole. E cominciò pure il vaniloquio contro il destino cinico e baro che prendeva a bersaglio qualunque cosa o personaggio potesse suggerire il senso di un sortilegio malvagio, più che di una normale elezione perduta: la calza sull'obiettivo della telecamera con cui Berlusconi avrebbe reso più soffice e seducente il suo messaggio video; la spilla appuntata sul bavero del doppiopetto berlusconiano che, secondo i più temerari esegeti della videocrazia, avrebbe riflesso sugli occhi degli sprovveduti telespettatori chissà quali bagliori subliminali. E poi addirittura l'ipnosi; Raimondo Vianello; Ambra; il karaoke; gli spot della pubblicità, e così via. La sinistra, che aveva sin lì coltivato solide radici popolari, cominciò a diffidare del popolo, della gente non inquadrata, degli elettori a suo insindacabile ed elitario parere imbottiti di stupidaggini pubblicitarie e schiavi della televisione.
Qualcuno riuscì persino a maledire il suffragio universale: in fondo, addirittura si disse e si scrisse, il popolo furente e indisciplinato aveva nella storia già scelto Barabba e sacrificato Gesù Cristo. È vero che nessuno ebbe il coraggio di paragonarsi esplicitamente a Gesù Cristo. Ma il «ladrone» era quello lì, l'arcitaliano che con un «rassemblement» molto simile a un'accozzaglia di avventurieri, con l'espediente furbo della doppia alleanza con il Msi (non ancora An) al Centrosud e con la Lega al Nord, con uno schieramento che non poteva vantare alcun legame con i partiti storici che avevano stilato la Costituzione italiana, aveva avuto l'ardire di traslocare Cologno Monzese a Palazzo Chigi. Con tutto un contorno di azzimati sconosciuti armati di un grottesco «kit del candidato» che la Roma politica e giornalistica accolse come i marziani, tutti con il blazer, tutti cloni del Capo, tutti obbedienti soldatini pescati nelle selezioni supervisionate dalla Publitalia di Marcello Dell'Utri. Non era la «rivoluzione liberale», promessa e mai arrivata, ma una rivoluzione antropologica sì: l'azienda che si fa potere politico, senza la mediazione dei partiti. «Colpo grosso», dissero e scrissero. Ma il fatto più grosso è che a sinistra non riuscirono a capire dove avessero sbagliato. E non ci riuscirono, per la verità, per tutti i diciassette anni successivi, fino a quando Berlusconi, immerso nei suoi errori, circondato da nugoli di cortigiani e cortigiane che gli hanno fatto perdere il senso della realtà, è sprofondato sì, ma solo per suo proprio demerito.

La pro loco di Simeri Crichi punta sul meraviglioso territorio per creare una fonte di turismo

Articolo tratto dal" Quotidiano della Calabria"

sabato 12 novembre 2011

Per il processo a Carlo Cosco che sciolse la moglie nell'acido le spese saranno a totale carico dello stato

Processo Lea Garofalo, sciolse la moglie nell’acido. Ora lo Stato gli paga l’avvocato
Carlo Cosco, accusato di aver ucciso e sciolto nell'acido la moglie nel 2009, ha ottenuto il patrocinio gratuito per il processo in cui è imputato. La parcella di Daniele Sussman Steinberg, celebre penalista di Milano scelto dal'uomo stesso, la pagheranno i contribuenti avendo lui dichiarato meno di 10.628,16 euro

Sciogli tua moglie nell’acido? Lo Stato ti paga l’avvocato. Questa l’ultima beffa in ordine di tempo del processo a Carlo Cosco, l’affiliato alle famiglie di Petilia Policastro, accusato di aver ucciso e sciolto nell’acido la moglie Lea Garofalo, collaboratrice di giustizia sparita la notte tra il 24 e il 25 novembre del 2009. All’uomo infatti è stato concesso il gratuito patrocinio: la parcella di Daniele Sussman Steinberg, celebre penalista di Milano scelto da Cosco stesso, la pagherà lo Stato, perché nel 2010 l’uomo, di professione buttafuori, ha dichiarato meno di 10.628,16 euro di reddito. Una circostanza singolare. Di solito erano gli stessi Cosco ad attivarsi per il pagamento delle spese legali dei loro accoliti. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip, Giuseppe Gennari, annota che “il mantenimento dei detenuti e il sostegno per le spese legali è un tipico servizio che viene fornito, dalle organizzazioni criminali, agli affiliati arrestati” e Massimo Sabatino – tra quelli che hanno sequestrato Lea Garofalo prima di consegnarla al marito – “ha goduto del sostegno economico dei Cosco” in un altro procedimento. Contro la donna la ‘ndrangheta complottava da tempo. Lo ha confermato Angelo Salvatore Cortese, ex appartenente alla mafia calabrese e oggi pentito. La sua testimonianza è stata ascoltata in Corte d’assise a Milano all’ultima udienza del processo per l’omicidio della Garofalo e che vede imputati non solo il marito Carlo, ma anche gli altri due fratelli Cosco – Vito e Giuseppe – insieme ai loro fiancheggiatori, Massimo Sabatino e Carmine Venturino. Cortese, che verso la fine del 2001, assieme a Carlo Cosco, passò un periodo di detenzione nel carcere di Siano a Catanzaro, racconta di essere stato il primo a sapere che l’uomo voleva eliminare la moglie. “Me la presentò come una questione di onore – riferisce Cortese – perché Lea Garofalo lo aveva abbandonato, portando con sé la figlia e preferendo un altro uomo, un tipo che non conoscevo, di Bergamo”. Carlo Cosco si guardò bene dal riferire che in quegli stessi giorni sua moglie aveva cominciato a collaborare con la giustizia e a denunciare gli affari illeciti dei fratelli. Questi controllavano un pezzo di Milano, tra piazza Baiamonti, corso Como e via Montello 6 dove abitavano, occupando abusivamente una serie di appartamenti. Si dedicavano allo spaccio di droga, ma anche agli appalti pubblici, tant’è che Vito Cosco ha lavorato nei primi cantieri per la costruzione del metrò 5. Ad ascoltare con interesse la deposizione in videoconferenza da località segreta il collaboratore di giustizia, è stato il diretto interessato Carlo Cosco. Cortese ha confermato che nell’onorata società non era tollerato il comportamento di Lea Garofalo, tanto più essendo lei la moglie di un personaggio vicino ai clan. Secondo Cortese, infatti, Carlo Cosco era affiliato alle famiglie di Petilia Policastro, un paese della provincia di Crotone. Un dettaglio che però il pubblico ministero Michele Tatangelo ha giudicato ininfluente. I Cosco, infatti, sono giudicati a Milano per aver commesso un efferato omicidio e non per essere componenti della ‘ndrangheta. Su di loro nemmeno pesa l’aggravante mafiosa, per cui tecnicamente non si può parlare di un processo alla criminalità organizzata. Ma sulla vicenda di Lea Garofalo i racconti di Cortese gettano ora una luce inquietante. Secondo il pentito, da un certo momento in poi, sulla donna pesò il verdetto di due boss: Pasquale Nicoscia di Isola Capo Rizzuto e Domenico Megna di Paparice, anche loro nel 2001 rinchiusi nel carcere di Siano. Secondo Cortese i due giudicarono legittima la volontà del marito di uccidere la moglie, anche se in quel momento non potevano aiutarlo. Nei loro territori era in corso una guerra, che li contrapponeva alla famiglia degli Arena, sempre di Isola Capo Rizzuto, e la cosa naturalmente necessitava di ogni loro energia. Cosco, in ogni modo, aveva bisogno dell’approvazione di qualche ‘mammasantissima’. Lea era sorella di Floriano Garofalo, personaggio di spicco della ‘ndrangheta di Petilia Policastro; se avesse agito da solo sarebbe esplosa l’ennesima faida.

I 20 presidenti delle comunità montane Calabresi si sono riuniti per dire no alla soppressione dell'ente

 incontro con i Presidenti dei 20 enti calabresi per discutere il recente progetto di legge approvato dalla Giunta regionale
Si è svolto a Lamezia Terme un incontro, convocato dall’Uncem, con i Presidenti delle 20 Comunità montane calabresi, per discutere il recente progetto di legge approvato dalla Giunta regionale, che sopprime tali enti ed istituisce una nuova “Azienda Regionale per la Forestazione e per le Politiche della Montagna”. “Tutti gli intervenuti - è scritto in un documento - hanno evidenziato come con un semplice colpo di spugna si vogliono cancellare enti locali sani, riformati nel 2008 con la L.R. n. 20, mai divenuti oggetto di osservazioni circa presunte passività, oltremodo efficienti, quando sono stati coinvolti in qualsiasi iniziativa, che non hanno alcun costo se non quello del personale di cui la parte più consistente è a carico dello Stato ed i cui organi politici (Presidenti, Assessori e Consiglieri), sono composti da rappresentanti dei Comuni, che svolgono giornalmente e gratuitamente i loro compiti, assumendosi soltanto enormi responsabilità e persino il discredito dei cittadini. Non si è tenuto conto nella scelta operata dalla Giunta regionale, dei principi costituzionali della sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione. Si sopprimono le Comunità montane con una legge ordinaria, senza aver proceduto prima alla modifica dello Statuto della Regione, che all’articolo 46, terzo comma, le annovera al pari dei Comuni, delle Province e delle Città Metropolitane, fra gli Enti destinatari delle funzioni amministrative conferite in attuazione dell’articolo 118 della Costituzione. È stato inoltre da tutti sottolineato - si legge - come i territori collinari e montani calabresi, che rappresentano circa il 93% dell’intero territorio regionale, non possono essere governati da un’Azienda, che al massimo....

venerdì 11 novembre 2011

11.11.2011 una data importante oppure un giorno come gli altri?


Oggi è un giorno molto particolare, di quelli che fano accapponare la pelle
dei superstiziosi molto più del classico “venerdì 13”: alle 11, 11 minuti e 11 secondi dell’11 novembre 2011 (anzi, dell’11/11/11) si realizzerà un lungo palindromo del numero 1.
Secondo la definizione, il “giorno palindromo” è una data del calendario che, scritta con la formula “giorno/mese/anno” ha una perfetta simmetria nella lettura, ovvero si può leggere sia da sinistra verso destra sia da destra verso sinistra. Alle 11:11 (e 11 secondi) di domani, un giorno preso d’assalto anche per matrimoni e altri eventi, avremo un palindromo a 12 cifre, e non ne avremo altri simili per i prossimi 100 anni.
Ma il palindromo ha ispirato e dato il titolo addirittura a un film horror, diretto da Darren Lynn Bousman e “sembra” che questa data davvero “significhi” qualcosa e che il numero 1111sia in grado di mettere in contatto gli uomini con il mondo del soprannaturale.
Non è tutto, perché alcuni prevedono che l’11/11/11 (o al più tardi il 21/12/12) possa esserci la fine del mondo. In questi casi previsioni e profezie si sprecano, ma la loro credibilità e veridicità è chiaramente tutta da dimostrare.
Come quella del 21/12/12, che secondo l’opinione popolare sarebbe stata prevista dai Maya nel loro calendario. Nulla di più sbagliato: tutto sarebbe nato con Cristoforo Colombo e alcuni equivoci e interpretazioni errate sui suoi scritti, come hanno dimostrato alcuni antropologi dell’Università del Kansas in uno studio presentato al IX Simposio internazionale di Archeostronomia a Lima. Secondo gli ultimi studi, tutto ebbe inizio agli albori del 16esimo Secolo, con una combinazione di profezie astrologiche e bibliche per spiegare il nuovo millennio: dopo avere scoperto il Nuovo Mondo, Cristoforo Colombo si sarebbe convinto che l’avere scovato la terra più remota avrebbe condotto la Spagna alla riconquista di Gerusalemme, facendo avverare la fine del pianeta descritta nel Libro della Rivelazione. Per corroborare le sue convinzioni, l’esploratore genovese scrisse un suo Libro delle Profezie, che includeva una sua intervista al leader Maia, fatta nel 1502. Sarebbe stato proprio questo riferimento, ha spiegato negli Usa l’antropologo John Hoopes, ad avere dato adito alle successive speculazioni e congetture di esploratori e missionari, spingendo eccentrici e studiosi a collegare gli antichi Maya, prima di ogni contatto con gli europei, con le credenze popolari astrologiche e religiose del 1500.

Oggi San Martino Ecco la bella storia di questo Santo nato in Ungheria


Martino nacque nel 316 o 317 nella provincia romana della Pannonia, l'odierna Ungheria. 
Il padre, militare, chiamò il figlio Martino, cioè piccolo Marte, in onore del dio della guerra. Ancora bambino Martino giunse coi genitori a Pavia, dove suo padre era stato destinato, ed in questa città fu allevato. Proprio a Pavia, Martino chiese di essere ammesso al catecumenato, ma, come ogni figlio di veterano aveva una carriera già trattata: l'esercito. A soli 15 anni fu obbligato al giuramento militare dal padre, irritato dalla ripugnanza del figlio per la professione delle armi e della sua inclinazione verso la vita del Monaco cristiano. Così Martino si preparò alla carriera delle armi e fu in breve promosso al grado di "circitor". Il compito delle "circitor" era la ronda di notte e l'ispezione dei posti di guardia. Durante una di queste ronde, Martino incontrò, nel cuore dell'inverno, un povero seminudo e, non avendo più denari, prese la spada, tagliò in due il proprio mantello e ne donò la metà al povero. La notte seguente egli vide in sogno Cristo, avvolto in quel mantello che gli sorrideva riconoscente.
     Questo atto di carità probabilmente avvenne nel 338 mentre Martino era di guarnigione ad Amiens; nella Pasqua del 339 egli ricevette il battesimo. Dopo il battesimo, Martino rimase nell'esercito per circa vent'anni durante i quali condusse una vita da vero cristiano e da buon camerata, dando comprensione a tutti. Infine a quarant'anni decise di mettere in esecuzione il progetto della sua giovinezza: lasciare le armi e farsi Monaco. Dopo l'esonero dal servizio militare, Martino si recò a Poitiers, presso Ilario, suo amico, che era stato eletto vescovo. Egli aveva potuto conoscere il grande vescovo in una delle città dov'era stato di guarnigione e aveva concepito per lui un'ammirazione grandissima. Ilario lo accolse molto bene e lo ordinò esorcista, carica poco ambita, ma che avrebbe permesso al nuovo chierico di dedicarsi allo studio delle cose di Dio sotto la direzione di un incomparabile maestro. Una notte però Martino sognò che doveva convertire i sui vecchi genitori; partì allora per la Pannonia e convertì sua madre, ma non ebbe successo presso il padre, pagano ostinato. In tutta la regione dominava l'arianesimo. Per il suo coraggioso tentativo fu ingiuriato, dovette lasciare il paese. Si recò a Milano e poi in Liguria, nell'isola di Gallinara, infine tornò a Poitiers, dove Ilario lo accolse nuovamente con grande gioia, ed in questo periodo fu ordinato diacono e poi prete. Ilario possedeva a poche miglia da Poitiers, una villa e permise a Martino di ritirarvisi: laggiù egli divenne Monaco, ben presto circondato da discepoli, evangelizzando coloro che abitavano nei dintorni. Sorse così il monastero di Ligugè, il più antico conosciuto d'Europa. 
Martino visse a Ligugè dalla decina d'anni, fino a quando i cristiani di Tours furono chiamati a scegliere un nuovo vescovo. Essi desideravano che Martino governasse la loro Chiesa e, per vincere la sua resistenza, ricorsero ad un sotterfugio. Un certo "Rusticus" con il pretesto dalla malattia di una moglie, andò da Martino, supplicandolo di guarirla, e poiché il santo non poteva resistere ad un appello di carità si mise in cammino. Sulla strada un gruppo di cristiani gli tese un'imboscata, lo catturò e lo condusse sotto scorta in città. Qui giunto, la popolazione lo chiamò vescovo. Eletto per acclamazione, Martino non poté sottrarsi e fu consacrato vescovo di Tour, sembra dal 4 luglio 371; il suo episcopato durò 26 anni. Martino fù un vescovo attivo ed energico propagatore della fede. Tale era l'ardore della sua fede, così grande il suo disinteresse, che la passione della giustizia lo spinse a diventare missionario tra i pagani, protettore degli oppressi e, per la sua bontà, arbitro tra i fedeli, i funzionari imperiali e gli stessi imperatori. Ma per evangelizzare occorrevano anche sacerdoti seriamente preparati: per questo Martino creò a Marmoutier, quello che potremmo chiamare il primo centro di formazione clericale dalla Gallia. 
    Da Marmoutier e da Tours l'attività del santo si irradiò in ogni direzione: per 26 anni, e fino alla morte, proseguì la sua opera di evangelizzazione con una mirabile giovinezza di spirito, lottando contro l'eresia ed il male e contro la miseria umana. Un giorno, sul finire dall'autunno del 397, si recò nella parrocchia rurale di Condate, per mettere pace tra i chierici in lite tra loro. Al momento di ripartire per Tours, però, si sentì allo stremo delle forze e  fu assalito dalla febbre: comprese che si avvicinava la sua ultima ora. Si fece distendere su di un cilicio e su di un letto di cenere, come era usanza degli asceti del tempo, e attese la morte in preghiera.