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venerdì 28 agosto 2020

Cammino Basiliano un percorso di 72 tappe 1040 chilometri che attraverserà 160 borghi Calabresi Ecco l'elenco dei comuni. Ieri la presentazione ufficiale

 Un Cammino che, in 72 tappe, 1040 chilometri e 160 borghi, partendo da Rocca Imperiale passa dai boschi del Pollino, della Sila, delle Serre e dell’Aspromonte, fino ad arrivare a Reggio Calabria. 



È Il Cammino Basiliano, il progetto promosso dall’omonima Associazione e sostenuto dalla Regione e dal Consiglio regionale della Calabria che è stato presentato in Cittadella regionale.Presenti, il presidente del Consiglio regionale della Calabria, Mimmo Tallini, gli assessori Gianluca Gallo (Agricoltura/Forestazione/Welfare) e Sergio De Caprio (Ambiente), il presidente dell’Associazione “Cammino Basiliano”  Carmine Lupia, la presidente di “Mito” (il Festival internazionale di musica classica organizzato dalle città di Milano e Torino) Anna Gastel, l’imprenditore milanese Matteo Visconti di Modrone e il responsabile nazionale per le Aree protette di Legambiente, Antonio Nicoletti.  «La Calabria verde, dei Parchi e delle  Riserve naturali – ha dichiarato Mimmo Tallini, presidente del Consiglio regionale della Calabria – adesso  si può avvalere di un’infrastruttura verde che ha le potenzialità di valorizzare la natura e portare conoscenza ed economia  soprattutto nelle aree interne. L’Italia, attraversata da una fitta rete di cammini  religiosi, culturali, storici, naturalistici, potrà così arricchirsi di un ‘Cammino’ che ha l’obiettivo di promuovere cultura, arte, ambiente, tradizione ed enogastronomia, ma anche personaggi storici, piccoli centri, antropologia, biodiversità, ecosistemi e paesaggio ambientale, agrario e forestale». «La strategia di rilancio dell’ambiente e del  turismo calabrese, nella ‘fase 2’ – ha aggiunto – potrà contare su questa iniziativa che abbiamo voluto mettere in campo nella consapevolezza che il ‘cammino’ è un fenomeno sociale in espansione, costituisce un motivo per cui si sceglie una destinazione piuttosto che un’altra e il turista che ama camminare è diventato un importante target a cui rivolgersi per mettergli a disposizione la possibilità di apprezzare le bellezze della Calabria». Ha coordinato l’incontro il giornalista Romano Pitaro che, per segnalare l’importanza anche economica dei cammini,  ha citato la ricerca di Trademark (azienda leader nelle consulenze  sul settore del turismo) secondo cui «questo tipo di turismo muove un giro d’affari di 12,5 miliardi nel mondo, più di 5 miliardi in Italia (che al mondo ha la maggiore concentrazione di vie dello spirito) e dunque – ha sostenuto – il cammino che pubblico (Regione) e privato (Associazione) mettono  a disposizione dei camminatori assume un’importanza formidabile specie per l’entroterra calabrese».  Lupia ha, da Nord a Sud, descritto minuziosamente il percorso indicando boschi e biodiversità,  ma anche il fascino di borghi antichi, storia e spiritualità. Gastel, che ‘cammina’ da queste parti da tre decenni, ha esortato a promuovere la Calabria positiva, bella, incontaminata e non costruita, «dove le case dei contadini sono le più belle del mondo».


«La Calabria – ha dichiarato Anna Gastel – è una terra meravigliosa perché ricca di tutto: entroterra, mare, montagna, bellezze architettoniche, sapori buoni come in nessun altro posto. Ha bisogno di essere meglio conosciuta e di trovare più coraggio nel sapersi apprezzare».  Visconti di Modrone, invece, ha invece confessato di essere «un neofita della fascinazione calabrese, datata solo sei anni, addirittura ha  correlato il rimbombo sordo dei passi sul battuto dei boschi silani, serresi  ed aspromontani  con il loro tambureggiare cupo sulla banchisa della Groenlandia». L’esponente nazionale di Legambiente (Nicoletti) ha apprezzato l’iniziativa «che ora – ha dichiarato – deve essere adeguatamente calata nel territorio, affinché i calabresi stessi la valorizzino, la tutelino e la promuovano»Appassionato l’intervento dell’assessore all’Ambiente De Caprio, che ha il copyright dell’idea di fare «dell’intera Calabria un’unica area protetta», mentre l’assessore Gallo, dopo aver espresso parole di apprezzamento per l’impulso legislativo del presidente Tallini sia per il Cammino Basiliano che  quando si è trattato di .....................................

A seguire l'elenco dei 160 borghi calabresi interessati dal percorso del commino Basiliano

martedì 18 agosto 2020

Simeri: Sulle tracce di San Bartolomeo appuntamento a domani sera con l'evento organizzato da "Asperitas" che ripercorre la vita del Santo venerato anche dalla chiesa orientale.


Foto evento del 2019



 Domani  sera 19 agosto 2020 nel singolare borgo di Simeri, frazione di Simeri Crichi (Cz), si svolgerà un interessante evento: “ Sul cammino di S. Bartolomeo”. L’avvenimento, patrocinato dal Comune, vuole porre in luce la figura del Santo, la sua opera religiosa che tanto progredì in Calabria e ugualmente importanti progetti che andranno ad essere intrapresi. Da sempre Simeri ha rappresentato un cardine portante di storia e di cultura, quella storia, le cui trame, si uniscono anche a quelle del capoluogo. Nel piccolo borgo, molteplici i luoghi che riconoscono le orme di un passato significativo, come ad esempio il Castello Bizantino (sec. X) o i ruderi della singolare “Collegiata” (Chiesa di Santa Maria dell’Itria), l’antica chiesa distrutta dal terremoto del 1744, si aggiungono inoltre, le “Grotte degli Eremiti” scavate nella roccia, nel quartiere della Grecìa e i resti del “ Convento” dei frati cappuccini (costruito dal principe Borgia sul finire del sec. XVI). Tanto si potrebbe dire di interessante, ma, nel particolare, si distingue l’importante figura di San Bartolomeo a cui Simeri diede i natali, seguendo poi quella che fu la sua opera di evangelizzazione promulgata in tutta la regione, che fece di lui un insigne religioso. 

tratto da un servizio di   



 

Su segnalazione 

venerdì 24 luglio 2020

Catanzaro la "Torre Cavallara" sale in classifica nei Luoghi del Cuore del FAI Ecco i risultati parziali della decima edizione



Arrivano i risultati parziali della decima edizione del censimento nazionale Fai “I luoghi del cuore”. A oggi il luogo in Calabria al primo posto della classifica provvisoria è il Complesso Monastico Basiliano di Santa Maria del Patire a Corigliano - Rossano (CS), situato su un pianoro tra due vallate e immerso tra i boschi dell’ultimo lembo della Sila Greca. Si trova a ridosso dell’Oasi Naturalistica dei Giganti di Cozzo del Pesco e si affaccia sulla Piana di Sibari e quindi sul Mar Ionio. Detto anche Pathirion, è un edificio dell’inizio del XII secolo, che presenta i caratteri dell’arte basiliana con decorazioni a tarsie marmoree policrome. Fu eretto grazie all'iniziativa del beato Bartolomeo da Simeri e alle donazioni di alcuni baroni normanni. Era uno dei più importanti monasteri basiliani della regione, ma del complesso primitivo resta ben conservata soltanto la chiesa. Fu per secoli un luogo di preghiera, ma anche un centro culturale tra i più qualificati e rinomati del Sud, con una ricca biblioteca e uno scriptorium in cui i monaci amanuensi trascrivevano, conservavano e trasmettevano la sapienza greco-romana-pagana e quella cristiana. A candidare il complesso al censimento 2020 è stato il comitato “Communia - Rigeneriamo il Patire”, per favorire la conoscenza e la valorizzazione del patrimonio storico, culturale e ambientale del territorio. Il bene rientra nella classifica speciale “Italia sopra i 600 metri”.
A seguire l’Abbazia Florense di San Giovanni in Fiore (CZ), che con i suoi circa 17.000 abitanti è il più vasto e popolato centro abitato della Sila, all’interno dell’omonimo Parco nazionale, nonché il più popolato comune italiano oltre i 1.000 metri di altitudine. L’abbazia, edificata nel 1215, rappresenta la struttura fondativa del capoluogo silano. Il luogo è inserito nella classifica speciale “Italia sopra i 600 metri”.
Sono giunti molti voti anche per il Sentiero del Brigante a Santo Stefano in Aspromonte (RC), grazie all’attivazione del “GEA – Gruppo Escursionisti dell’Aspromonte” che ne cura la manutenzione e per il quale desidera una maggiore conservazione e promozione turistica. Inserito nell’Atlante Digitale dei Cammini d’Italia del MIBACT, il percorso si sviluppa per circa 130 km tra il Parco Nazionale dell’Aspromonte e il Parco Naturale Regionale delle Serre. Partendo da Gambarie, si snoda lungo la linea di crinale fino alle Serre Calabre consentendo all’escursionista di concludere il suo cammino nella medievale Stilo, dove si trova la Cattolica, valorizzata da un innovativo sistema di illuminazione grazie al finanziamento “I Luoghi del Cuore” a seguito di un passato censimento. Anche il sentiero rientra nella classifica speciale “Italia sopra i 600 metri”.
E ancora la Torre Cavallara di Catanzaro risalente al XVII secolo, adagiata su una collina a pochi passi dalla costa ionica catanzarese e inserita in un ampio sistema di strutture di avvistamento edificate lungo tutta la costa. Eretta a scopo di difesa contro le invasioni saracene, è a base quadrangolare ed è detta "Cavallara" perché ospitava al piano terra i cavalli utilizzati per le comunicazioni veloci in caso di pericolo. L'accesso al piano superiore avveniva tramite scala esterna con ponte levatoio. Il comitato “Amici della Torre Cavallara”, composto da diverse associazioni del territorio, ne auspica la ristrutturazione e una migliore accessibilità.
Seguono, nella classifica, Villa.................

lunedì 6 luglio 2020

"Quelle grotte non sono di Beato Paolo"Cropani il sindaco risponde alla Pro-Loco sulla riapertura delle grotte di Beato Paolo Forse non sono quelle dove il beato si recava a pregare

L’antefatto è che la locale Pro-loco, presidente Angelo Grano, ha annunciato, appena ieri, sabato 4 luglio 2020, la riapertura delle grotte dove il Beato Paolo da Cropani si recava in preghiera. Buona notizia per la comunità cropanese? Non proprio a sentire il primo cittadino cropanese che, nel confutare propositi e finalità, non solo parla di scelte estemporanee della Pro-loco, ma solleva dubbi sulla reale collocazione delle grotte indicata dall’associazione turistica cropanese.



Si legge in una nota stampa a firma del sindaco di Cropani: «Il sogno dei cropanesi senza i cropanesi e, forse, nelle grotte sbagliate… Attraverso i media locali – argomenta Raffaele Mercurio – sono venuto a conoscenza della notizia che il presidente della Pro-loco di Cropani si è mosso per far riattivare le grotte dove il Beato Paolo da Cropani si ritirava a vita eremitica in preghiera. Di fronte ad una notizia così importante per la mia comunità, ed avendo di recente approfondito la mia personale ricerca su tale argomento, ho ritenuto opportuno capire cosa stesse succedendo. In premessa è bene sottolineare che le grotte di cui parla il presidente della Pro-loco, ricadono nel territorio comunale di Cerva e si trovano in prossimità della strada che porta a Cuturella di Cropani. Se invece si approfondisce la ricerca sui “luoghi del Beato Paolo di Cropani” emerge chiaramente che le “grotte” nelle quali si ritirava il Beato Paolo ricadono in località Scavigna nel territorio comunale di Belcastro. Approfondendo ancora meglio tale ricerca i dubbi aumentano. Tanto è vero che tra il 1989 e il 1991, attraverso un’altra figura storico religiosa cropanese (Padre Remigio), si arrivò ad asserire che nelle grotte lungo la strada per Cuturella (quelle indicate dalla Proloco) c’era stato un eremita si ma non è dato sapere se fosse il Beato Paolo e che, invece, le grotte dove si ritirava in preghiera il nostro Beato erano appunto quelle in località Scavigna nel comune di Belcastro. Insomma da tutt’altra parte rispetto ai luoghi indicati dalla Pro-loco. Su tale questione è bene sottolineare che in occasione delle recenti ricerche effettuate, con professionisti del settore, per redigere la progettazione preliminare che ci ha permesso di partecipare al bando ministeriale sulla valorizzazione dei Borghi (presentato poi il 29 Giugno scorso), avevamo pensato alla realizzazione di un sentiero che collegasse Cropani alle grotte del Beato Paolo, ipotesi poi scartata proprio per l’eccessiva distanza dal borgo alle grotte stesse. Ciò che ritengo però essere grave in tutta questa vicenda, che offende me in qualità di primo cittadino e tutta la comunità cropanese, è il fatto di non essere stati coinvolti. Non è stato coinvolto il Sindaco nonché l’amministrazione comunale, cosi come non è stato coinvolto il parroco di Cropani nonché la Pia Unione che da decenni promuovono e valorizzano la figura del Beato Paolo. In ultimo, ma non meno importante, il coinvolgimento del sindaco di Cerva. Conosco Fabrizio Rizzuti e di lui ne conosco la serietà e il rispetto delle istituzioni, avendo tra l’altro avuto a che fare più volte proprio sull’attuale riqualificazione della strada per Cuturella. Ci siamo sentiti sulla vicenda e sostiene che l’unica disponibilità data, tra l’altro in un incontro occasionale e non programmato, è stata quella di verificare se il luogo indicato dal presidente della Pro-loco ricadesse o meno nel territorio di Cerva ed eventualmente farlo ripulire, come tra l’altro già avvenuto in passato, dagli operai del consorzio di bonifica. Tutta qui la disponibilità del Sindaco di Cerva. Alla luce di ciò emerge in maniera chiara e inequivocabile il tentativo del presidente della Pro-loco di avere agito in completa autonomia, lontano dalle istituzioni che, quando si parla del Beato Paolo di Cropani, vanno necessariamente coinvolte. Il fine? Quello di accalappiarsi le simpatie dei cropanesi che ovviamente, venerando e adorando il Beato Paolo, non potevano che essere propositive. Penso però che di............

sabato 27 giugno 2020

Strage di Ustica dopo 40 anni la Sila nasconde ancora alcune risposte

Una barra di uranio nascosta in una valigia. E due aerei abbattuti: un Dc 9 carico di passeggeri, diretto in Sicilia e precipitato nel mare di Ustica e un Mig 21 con le insegne dell’aviazione militare libica finito tra i boschi della Sila.
In mezzo l’ombra d’un patto scellerato tra i servizi segreti dei Paesi Nato e lo scheletro d’un “caccia” F14 americano comparso tra le balze di Castelsilano la mattina del 28 giugno 1980. Dopo quarant’anni, la strage di Ustica è ancora una questione irrisolta da tutti i punti di vista: giudiziario, militare e storico. Ma ripartiamo dall’inizio. L’aereo scomparso dal controllo dei radar“Itavia 870”. Questa era la sigla del Dc 9 Itavia in volo la sera del 27 giugno 1980 da Bologna e Palermo. L’aereo scomparve con 81 persone a bordo dai radar nel cielo di Ustica e venne ritrovato spezzato sul fondale di quell’area del Mediterraneo. Alle iniziali ipotesi del «cedimento strutturale» e della «bomba a bordo» seguirà, prendendo sempre più corpo, la pista dell’abbattimento del velivolo attraverso l’utilizzo d’un missile.

Strage di Ustica: cosa sappiamo

Il 27 giugno 1980 il volo Itavia IH870 precipitò a largo dell’isola di Ustica, in Sicilia. Nella tragedia morirono tutte le 81 persone che si trovavano a bordo dell’aereo.  L’isola di Ustica si trova nel mar Tirreno, distante 67 chilometri a nordovest dalla città di Palermo, della cui provincia fa parte.

Cosa è successo a Ustica nel 1980? La verità sulla strage e le nuove rivelazioni

I FATTI
– 27 Giugno 1980. L’aereo DC-9 Itavia IH870 in volo da Bologna a Palermo parte alle 20:08, con 113 minuti di ritardo. A bordo ci sono 81 persone tra passeggeri ed equipaggio.
– Tra le 20:59 e le 21:04, i radar e le torri di controllo perdono il contatto con il volo. Solo alle prime luci dell’alba, dopo imponenti ricerche, vengono ritrovati alcune decine di miglia a nord dell’isola di Ustica i primi resti dell’aereo: tutti le persone a bordo dell’aereo sono morte.
LE IPOTESI SULL’INCIDENTE
– Cosa ha causato la caduta del DC-9? In assenza di prove, furono immediatamente formulate diverse ipotesi: un cedimento strutturale del velivolo; una bomba a bordo; una collisione con un aereo militare; un abbattimento causato da un missile aria-aria, un tipo di missile fatto apposta per colpire mezzo aereo attraverso un altro mezzo aereo.
LA TEORIA DEL MISSILE
– Questa teoria, solo oggi ritenuta ufficialmente veritiera dalla recente sentenza della corte d’appello di Palermo, non ha avuto riscontri dagli enti militari almeno fino ai primi anni Novanta, anche perché sul relitto non furono trovati residui direttamente riconducibili a una collisione con un missile, ma solo tracce di esplosivo.
– La teoria che il DC-9 Itavia IH870 fosse stato colpito da un missile si fonda principalmente sul fatto che nell’area tirrenica, in quegli anni, si sarebbe concentrata un’intensa attività dell’aeronautica militare da parte di diverse nazioni, fatto che ha avuto notevoli conferme.
– A supporto di questa teoria vi sarebbero i tracciati dei movimenti aerei rilevati dai radar, anche se altri strumenti di monitoraggio non hanno rilevato nella stessa area geografica una simile attività. Attività che, stando alle ricostruzioni degli inquirenti, avrebbe visto un notevole inquinamento delle indagini a riguardo.
LA TEORIA DELLA BOMBA

Taverna Salvare la chiesa di San Marco, preziosa testimonianza storica del rapporto tra la città medievale e la Repubblica di Venezia.





Sono ormai ridotti a poche muraglie i resti della chiesa dedicata a San Marco Evangelista, edificata nel 1102 nel tracciato urbano della medievale città di Taverna, per devozione del veneziano Marco Vainerio, titolare di una fabbrica di tessuti, all’epoca operante in prossimità del fiume Litrycon (Litrello) e dell’attuale abitato di San Giovanni d’Albi. La presenza dell’edificio ecclesiastico fu riportata da Ferrante Galas nella sua “Cronica di Taverna” l’anno 1416 e da Padre Giovanni Fiore da Cropani nel 1638, allorquando la memoria locale tramandò il racconto della miracolosa esposizione nel suo tabernacolo dell’icona di “Santa Maria delle Grazie”, poi trasferita nella parrocchiale di San Martino.
Tra i principali riferimenti documentali, nel 1739 venne documentata la visita del vescovo di Catanzaro mentre nel 1790 venne descritta da Vincenzo Catizone nel suo “Libro di carico del Distretto di Taverna e suoi Casali”. Ma è nella “Cronica di Taverna” che fu chiaramente collegato il nome del fondatore della chiesa, Marco Vainerio, greco veneziano, fatto venire “con tutti gli ordegni” necessarij” ed altre sei persone, per avviare la fabbrica dei tessuti e delle lane, che dal fiume Lytricon (Litrello) “sbarcavano co le Navi Veneziane nell’Uria”.
Nonostante l’identificazione del sito, trascritta nella tesi di laurea dello scrivente nell’ormai lontano 1983, pubblicata dal 1994 nei successivi studi, fino all’ultimo accolto nel catalogo della grande mostra “Rinascimento visto da Sud”, di Matera Capitale Europea della Cultura 2019, sono dei giorni nostri le accorate segnalazioni di Giovanni Fratto, di un ulteriore degrado dei resti della chiesa di San Marco che, unitamente ad altri sorprendenti ritrovamenti, resta la testimonianza storica più importante di un privilegiato e poco conosciuto rapporto commerciale e culturale, avvenuto in passato tra le comunità della presila (in particolare della città medievale di Taverna e suoi Casali) e la Repubblica di Venezia.
L’auspicio infine che il promesso impegno del Sindaco di Albi, Salvatore Ricca, di attivarsi concretamente per avviare la pratica di vincolo ufficiale da parte della.................


competente Soprintendenza della Calabria, possa finalmente concretizzare gli urgenti e necessari interventi di tutela, conservazione e valorizzazione di un bene architettonico, la cui perdita renderebbe più povera la storia culturale e sociale della presila catanzarese.
Di Giuseppe Valentino

                               (Le foto sono di 
Marco Puleo).

mercoledì 17 giugno 2020

La terribile morte della povera Francesca Falbo di Sersale uccisa dal mostro "Angelone" Un raccapricciante racconto tra i comuni di Sersale, Zagarise e Magisano.


Ricerca storica dell'arch. Salvatore Tozzo 
La storia che vi racconto oggi è una storia drammatica. Tutti hanno scritto di Angelo Schipani detto Angelone che terrorizzo' la presila catanzarese da giugno ad agosto del '49. Sappiamo che alla fine lo catturo' Giuseppe Mustari di Magisano. E che fu condannato all'ergastolo per essersi macchiato, tra gli altri delitti, dell'uccisione di una giovane e bella ragazzina Sersalese diciassettenne, FRACESCHINA FALBO. Piu volte stuprata e ringhiusa per giorni in un frantoio di campagna. Di Angelone ne hanno scritto in molti ultimo dei quali l'avvocato Le Pera. Ma non ho mai visto il volto di questa povera fanciulla. E così mi sono messo a cercare i luoghi dove tutto avvenne. Il primo fabbricato che è citato è la chiesetta di Cipino di Sersale che si trova appena prima di arrivare al paese, a pochi metri dalla provinciale, provenienti da Zagarise. Seguendo poi la comunale e scendendo verso il fiume sulla sinistra noto un ceppo commemorativo. Mi chiedo se è quello il luogo dell'omicidio. Mi avvicinò e con mia grande sorpresa e commozione noto che si tratta proprio del cippo dedicato alla povera fanciulla. Ma ancora di più noto la sua foto. Finalmente posso guardare il volto di Franceschina. Il cippo reca scritto quanto segue: Barbaramente uccisa da esacrato mostro un angelo di purezza Franceschina Falbo a ricordo 27/11/1932 - 2 /7/1949. In allegato la sua foto, il cippo, e la chiesetta diroccata di cipino. Cara Franceschina con questo mio scritto ti ho voluto ricordare e far vedere il tuo volto innocente a tutti anche se sono passati 70 anni. Perché noi vogliamo ricordare la vittima non il mostro. Riposa in pace e che questo sia da monito a tutti gli uomini che si macchiano di femminicidio.

Ecco una rara testimonianza del terribile episodio raccolto dal Prof. e storico locale Marcello Barberio
Tale opportunità mi si è presentata casualmente nell’estate del 2005, con l’intervista a Pancrazio Agosto, un ultrasettantenne di Zagarise, emigrato a Milano.
 “Nel ’40, per tre anni e mezzo, io e Angelone eravamo garzuni accordati nell’azienda dei Caravita, dove guardavamo capre, maiali e buoi, a Serre di Zagarise, assieme ad altri due forisi più grandi, di Magisano, un certo “Fiore da’ manca di cani” e “Franciscu tri grani”. Nel 1941 Angelone rubò agli stessi  Magisanisi  ceci, fave e formaggio, cioè la roba da mangiare portata dal paese, e si fece 3-4 mesi di carcere. Io dovetti procedere al riconoscimento dell’impronta delle sue scarpe: ad una c’erano i tacci bullette di ferro e i tundini e l’altra era liscia. C’erano le impronte che dal pagliaio portavano fuori. Era stato lui e lo dissi a Caravita…Insomma lo presero alla “Turrricedda”, una casetta colonica. Uscito di prigione si fece paisanu e collega di “Nicola  u Melissarotu”, cioè della località di Melissaro.
Ad una turra rapirono Francesca Falbo, una ragazza che aveva rifiutato u Milissarotu: scoperchiarono il tetto della turra, uccisero il padre che si faceva forte col dubotti e rapirono la figlia. Per 15 giorni la tennero in una stalla e la violentavano. La nascondevano in una gibbia, dove scorreva il vino nelle vasche, sotto il pavimento; con una cannuccia ci jettavanu nu pocu ‘e latta in bocca (12), perché lei voleva lasciarsi morire e rifiutava il cibo. Gente malvagia. Ad un certo punto Angelone decise di lasciarla andare a casa sua a Sersale, ma  la nonna di Nicola gli disse: “Tu la lasci andare e lei ci accusa tutti e va a finire che andiamo tutti in galera,  tutto per i comodi vostri”.  Angelone allora raggiunse la ragazza a Cipi, a un chilometro da piazza San Pasquale di Sersale, e la uccise con due colpi di fucile.

La ragazza non aveva potuto camminare veloce, perché zoppicava per le violenze subite. In quel luogo sorse una conicedda, dove la madre della ragazza andava tutti i giorni a piangere: si formava quasi una processione di gente, sia di Sersale che di Zagarise. Erano dolenti proprio! La vecchia campò poco e morì in carcere all’Isola. Anche Angelone morì in carcere a Catanzaro, perché fu preso a tradimento da Mustari in Sila, vicino  Buturo. Lo ubriacò e durante la notte lo colpì alla testa col cozzo della gaccia, lo stordì e lo legò con uno sciartu.Poi lo consegnò alla legge.Al processo vennero i più grandi avvocati, pure di fuori. Poi, ti ho detto, morì in carcere. Nicola, il complice, fu condannato pure lui all’ergastolo.ma poi la pena gli fu ridotta a 33 anni di carcere, per buona condotta. Ho sentito dire che ora è libero e vive a Sersale. Mo’ dovrebbe essere anziano. Sono 45 anni che manco dal paese: partii nel ’60 e ora che sono pensionato torno solo l’estate e a Natale, ma non sempre. Sono stato accordatu per 8 anni: mi davano da cazare, dormire nel pagliaio o nella baracca, vestire e mangiare. Questa era la vita del forise. Partii soldato che non avevo una lira. Ai due forisi  di Magisano, più grandi, Carovita dava 34 di grano al mese, senza altri viveri né soldi. Ad Angelone dava 14 di grano al mese, ma poteva mangiare alla mandria. Lui aveva un moschetto ad una canna e una pistola a tamburo.Il fucile da caccia per uccidere la ragazza glielo diede Nicola Scalise, u Melissarotu.  Insomma, Angelone era uno che entrava e usciva dal carcere come da un albergo, ma sempre per cose di poco, per roba da mangiare, non per oro o denaro. In carcere aveva imparato a lavorare a maglia, all’uncinetto e ai ferri “ di legno d’erga”, duro, usato per fare scupuli  e che quando u rumpi spara. Li modellava col coltello, era molto abile, e faceva anche il gancetto alla bacchettina. In paese vendeva i prodotti: calze di lana, borsette, maglie, che faceva mentre pascolava le bestie. Così sordiàva. Prima aveva una donna a Zagarise, una vedova, poi un’altra a Sellia, da cui ha avuto due figli, un maschio e una femmina: mi ricordo che l’amante se la curcava prena al pagliaio di Porticello delle Serre di Zagarise; io dovevo dormire all’aperto, fuori dal pagliaio. Durante la sua latitanza mi guardavo : dormivo all’aia sotto la paglia, per non essere scoperto durante la notte. Avevo testimoniato contro di lui, quando aveva rubato ai Magisanisi. Ma che potevo fare, ero un ragazzo. A Milano ho lavorato duro, ma ho trovato fortuna”. 
A seguire 


A proposito della cattura del bandito, ho avuto l’occasione di conoscere la figlia di Mustari, la quale ha consegnato a una rivista scolastica (11) un suo articolo emblematico sin dal titolo: Come Tatà prese Angelone
“Angelo Schipani, originario di Sersale [,….] abbandonato dalla madre all’età di 10 anni, si era guadagnato da vivere facendo il capraio anche se per arrotondare rubava galli e biancheria […] Prima della maggiore età aveva collezionato 15-20 condanne […]divenne il terrore della Sila macchiandosi di efferati delitti […] Le forze dell’ordine gli davano la caccia, ma Angelone sembrava invincibile [….]
In questo clima di paura e per proteggere i suoi 5 figli e la moglie, mio padre maturò l’idea di catturare il bandito sanguinario nell’estate del 1949 […] vicino a Buturo.  Una mattina, Tatà, mio fratello Francesco e mio zio Domenico si recarono in località Ariano per seminare il grano, quando intorno a mezzogiorno si presenta un uomo che cerca loro un po’ di pane perché digiuno da giorni.
La cosa si ripete nei giorni successivi: Angelone prende il pane, scambia qualche parola e si allontana nascondendosi in una baracca […]Un cognato di mio padre si premura di avvisare i carabinieri, i quali pensano ad una complicità di mio padre. Lo zio Domenico viene interrogato e picchiato a sangue:  a mio padre non resta altro che scappare e catturare il bandito per dimostrare la sua innocenza. Si reca da Angelone, gli racconta l’episodio e per un po’ di tempo condivide con lui la fuga fino al punto che il bandito si fida dell’amico. La famiglia ha bisogno, i viveri sono terminati. E’ dunque necessario mettere in atto un piano per catturarlo […] In località Acqua delle donne il bandito si addormenta. Mio padre, tormentato da mille pensieri, si rende conto che deve tradire la fiducia d’Angelone,[…] gli sottrae il sacco contenente la pistola e lo colpisce a un ginocchio per immobilizzarlo. Per il dolore Angelone sviene e mio padre lo trascina verso la segheria dove c’erano gli operai. Ma durante il tragitto Angelone  si aggrappa ad un pino e dà una spinta a mio padre, graffiandogli il viso,[…] nasce una colluttazione,[…]mio padre riesce a colpire il bandito con una pietra, facendogli perdere di nuovo i sensi. Cerca aiuto alla segheria, ma la gente per paura si allontana, solo un segantino gli offre una corda con cui legarlo, mentre un ragazzo va ad avvisare le guardie forestali di Buturo [.…] Trova il bandito che con un coltello sta tentando di tagliare la corda, fortunatamente arrivano le guardie forestali alle quali consegna armi e bandito. Alle 11 di quella mattina di luglio, scortato dai carabinieri  in motocicletta, il sanguinario bandito viene condotto a Catanzaro, presso la Legione dell’Arma. Mio padre viene convocato in questura, tra il giubilo della gente, gli vengono tributati tutti gli onori del caso e viene medicato e rifocillato. Gli è offerto un lavoro di netturbino che rifiuta perché la sua vita è tra i boschi della Sila. In cambio accetta una ricompensa in denaro, di £ 300.000. Ed è così che mio padre, Giuseppe Mustari, libera la Sila da quell’alone di terrore che l’aveva avvolta per anni”. Per la figlia Giovannina, Mustari ricevette una ricompensa in denaro, per i giornali dell’epoca e per l’opinione pubblica, invece, intascò la “taglia” per il tradimento dell’amico. Infatti il bandito – come nella tradizione brigantesca  –   continuava a rappresentare l’ultima plebe, i subalterni, tra i quali persistevano valori  culturali e ideologie  come lo stereotipo del mito del fuorilegge, caricato dalle masse popolari di ruoli sociali e di aspettative straordinari.

venerdì 10 aprile 2020

Catanzaro; la storia bellissima della Naca dall’antichità ai giorni nostri, raccontata da Rotella

Se oggi fosse stato un Venerdì Santo normale, senza cioè questo stramaledetto Coronavirus in circolo, Corso Mazzini di Catanzaro adesso starebbe traboccando di gente, colmo fino all’inverosimile per così dire e si sentirebbe in alcune zone vicine al luogo di uscita dei portatori e dei ‘figuranti’ anche qualche colpo di tamburo o di tromba della banda.


Ma tutto ciò, lo sappiamo, per il 2020 sarà solo un ricordo purtroppo. E allora, seppur virtualmente e senza il trasporto della vera Via Crucis, in quell’atmosfera di profondo misticismo collettivo – che neppure le due guerre mondiali sono riuscite a fermare – proviamo a immergervi noi, consapevoli di come sia solo un racconto, una raccolta di curiosità, e nulla più 
Prima curiosità sulla chiesa del Carmine. La chiesa da cui sarebbe dovuta uscire la processione – per poi rientrare a fine percorso – il Carmine. Parrocchia a cui l’onore tocca per rotazione ogni quattro anni, che curiosamente gli abitanti del vecchio rione chiamavano ‘Calmine’ poiché avevano l’abitudine di mettere la elle al posto della erre un po’ come – neanche a dirlo – i cinesi. 
Nella ‘notte dei tempi’. Fino al ‘600 si usciva con la Croce sulle spalle già dal giovedì sera.
Le sette lance. Le sette lance non sono come si pensa dei soldati di scorta ai condannati a morte fra cui Nostro Signore. Si tratta bensì delle spade, o dolori, di Maria Vergine.
Il termine Giudei. Usato prima del Concilio è poi caduto in disuso, anche perché a uccidere Gesù furono materialmente i romani. L’influenza spagnola. No, nella circostanza il riferimento non è a uno dei più terribili morbi della storia dell’umanità ma al contrario alle contaminazione della cultura locale con quella iberica appunto in tema di questo rito.
I confratelli con il cappuccio calato sulla testa. Un’usanza, quella del cappuccio sulla testa dei confratelli a seguito della Naca, nel capoluogo è stata ripresa come nel 2016. In origine era dovuta a due motivi: la preghiera da loro effettuata nel nascondimento e il mutuo soccorso garantito, proprio in caso di pestilenza, quando gli toccava dare degna sepoltura – con i conforti religiosi – ai morti a causa del virus.
La Naca fermata soltanto da Ferdinando IV.  Nei secoli scorsi esistevano più Viae Crucis in città – inscenate da Rosario, San Giovanni e Carmine – che però si scontrarono e quindi furono per così dire ‘sospese’ dal re per poi riprendere piano piano sotto il segno della devozione e della sottomissione alla Fede e forse anche alla casata reale. 

Nel Dopoguerra per qualche anno la Naca portata sul camioncino. A quel tempo, il pesantissimo simulacro veniva posto su un camioncino e non portato a spalla perché non si trovava gente disposta a farlo. Le divise dell’esercito romano. Fu un’idea balenata al compianto..............
Pasquale Lamanna nel 1971, che poi fu Rotella stesso – diciamo – a implementare con gli scudi dei soldati romani nel 1982 e a partire da metà anni Ottanta addirittura le corazze. 
La riproposizione della millenaria veste. Dal 2001 la confraternita del San Giovanni ha riproposto gli abiti noti come veste, sacco o colla, con una manica più lunga e una più corta, perché secondo tradizione addirittura millenaria la carità andava fatta nel più assoluto anonimato e senza alcuna ‘pubblicità’ tanto che neppure la mano destra dovesse sapere cosa faceva la sinistra. Senza scordare il cingolo legato ai fianchi a cui nei tempi antichi venivano attaccati ossicini di pollo o pezzetti di ferro per potersi flagellato o battere. 
Consapevoli che niente e nessuno potranno mai sostituire l’attesissima e amatissima Naca, speriamo solo di aver dato qualche informazione utile.
Un auspicio sostenuto anche dagli interessanti racconti proposti dal nostro Enzo, uno dei custodi dei più antichi segreti della Via Crucis catanzarese.
Un rito che, come già scritto stamani, ha luogo anche nel quartiere Gagliano e nelle località del catanzarese di Cropani e Badolato Superiore. 
Danilo Colacino
Fonte: calabria7.it

venerdì 3 aprile 2020

Crisobolli e Diplomi di Ruggero "PER IL PATIRION E SANTA MARIA DEL BOSCO" di Marcello Barberio


Sappiamo che la Crisobolla del 1082 è un editto dell’imperatore Alessio I Comneno di riconoscimento dei diritti commerciali di Venezia in Oriente e che l’impressione in calce del suggello d’oro indica l’importanza attribuita al documento dalla cancelleria di Costantinopoli, diversamente dal molibdobullo di piombo della tradizione bizantina. Durante il medioevo, anche le corti occidentali fecero largo uso delle bolle dei sovrani e del papa per l’emanazione di Diplomi e di documenti ufficiali, come testimoniato dalle varie raccolte paleografiche di codici greci e latini (1).                                                                                                           In questa sede c’interessiamo del Barberiano latino 3205 dell’Archivio Segreto Vaticano, attinente alla Carta Rossanese del 1104 e a tre Diplomi (due del conte Ruggero e uno del vescovo di Squillace dell’anno della creazione del mondo 6600, cioè del 1092 d. C). Il codice 3205 è un sigillo di Ruggero II conte di Calabria e di Sicilia, concernente una munifica donazione di beni a favore di Bartolomeo da Simeri, archimandrita del monastero basiliano del Patirion di Rossano (fondato dal beato Nisone di Simeri e posto sotto il patronato di Adelasia del Vasto, moglie del conte), che Giuseppe Amato, nel 1884 (2) definiva “il semenzaio dei più illustri calabresi, per dottrina, per dignità ecclesiastiche e per santità”. L’igumeno Bartolomeo e i suoi successori vi istituirono un celebre scriptorium di miniatura, un centro di compilazione dei codici e una ricchissima biblioteca, accresciuta dalle generose donazioni del basileus Alessio I e dalla basilissa Irene Ducas, su sollecitazione dell’alto dignitario di corte, l’eunuco calabro-greco Basilio Calimeris o Mesimerio.  Nel secondo volume degli Atti dei Pontefici Romani (3), a pag. 797, è riportata la lettera di papa Pasquale II all’imperatore Alessio Comneno, con la quale si lodava l’opera di collaborazione a favore delle due Chiese (greca e latina), come ribadito dal nunzio imperiale Basilio Mesimerio (di Simeri, come Bartolomeo): “Et fedelissimi ac sapientissimi nuntii vestri, B. Mesimeri relatio nos plenius certificavit”. Intanto, nella badia rossanese, con la santità dei costumi, regnava anche l’abbondanza dei beni materiali, tanto da provocare la gelosia dei benedettini di Mileto di rito latino, i quali accusarono Bartolomeo si eresia, di peculato, di appropriazione indebita e fraudolente dei lasciti e delle donazioni, oltre che di nepotismo (nel Patirion dimoravano stabilmente i familiari del santo). L’archimandrita fu assolto dalla corte di Ruggero a Messina e posto alla guida del nuovo monastero del San Salvatore e degli oltre quaranta monasteri basiliani di Calabria.  Il prof. Sapia ha focalizzato la sua attenzione principalmente sull’importanza linguistica del documento in esame (pubblicato nel 1662 da Ferdinando Ughelli”, nel IX tomo della sua Italia Sacra), “di un latino corrottissimo, che accoglie alcuni termini volgari e con un lungo brano quasi totalmente volgare, che ha fatto ritenere alla maggior parte degli studiosi di trovarsi dinanzi ad uno dei primi e più importanti documenti della lingua italiana”.  Analogo giudizio era stato espresso da Ludovico A. Muratori, da Ernesto Monaci, da Pratesi, Lazzari, Ugolini, Monteverdi e, con riserve, da diversi studiosi stranieri (4).  Per l’approfondimento dei “primordi e delle vicende del dialetto calabrese” non possiamo prescindere dall’Appendice al Vocabolario di Luigi Accattatis del 1895 e dalle comparazioni con alcuni “penitenziali” medievali, ripresi in “Una formula di confessione in volgare antico” (Civiltà Cattolica, 1936), del Codice Vallicelliano B.63, che P. Pirri ha messo in relazione col penitenziale del Codice Cassinese 451 del X secolo, nel quale si raccomandano “parole rustiche nella confessione  dei peccati”.
San Bartolomeo da Simeri (5)
Nel 1960, Evelyn Mary Jamison rinveniva nella Biblioteca Vaticana la copia della Carta Rossanese utilizzata da Ferdinando Ughelli, che, a sua volta, era un’altra copia del 1627 del notaio napoletano Silverio Ramundo, il quale aveva trascritto l’atto di donazione del 1317 del conte di Corigliano. Giovanni Sapia, Antonio Piromalli e altri studiosi hanno sottoposto a un approfondito esame stilistico e filologico la parte volgare della “Carta”, pervenendo alla conclusione che si tratta della descrizione di alcuni beni del Patirion in territorio di San Giorgio Albanese, in un raro esempio di traslitterazione in calabrese del testo greco del 1130. Una testimonianza del modo di parlare al popolo da parte dei ceti colti e della burocrazia, un codice di passaggio (traduzione dal colto al volgare) per rendere accessibile al popolo la lingua “altra”, in aderenza con le stesse indicazioni del Concilio di Tours dell’813: “Si cerchi di tradurre in modo comprensibile le omelie in lingua romana rustica, affinché più facilmente tutti possano intendere quel che sia detto”. Nel documento esistono “calchi dal greco, prestiti dal latino e mescolanze con l’italiano letterario”. Così afferma Antonio Piromalli, fornendoci una parziale traduzione fonetica del parlato volgare: “kum kuesto ordinamu alli monaci iterum sekundarie a tutti li vellani de Koriano et in altro loco, li recettati allo vostro loko coè de Fraumund, et li òmeni kuale recettati kuali sono vostri at kualùnkata loko avèssero loro stabbili, àbbiano kuesti stabeli semper sine impedimento … konfirmato kum lo presente sòlito sigillo; sigillato kum lo àureo nostro sigillo dato alla sopraddetta fraternitate”. E’ un esempio concreto delle finalità giuridico-notarili, cioè delle   ragioni pratiche e funzionali dell’uso del volgare, secondo i due distinti filoni che si andavano sviluppando: i placiti (testimonianze rese dai popolani in tribunale) e le laude religiose.  Tra i primi è famoso quello campano del 960: “Sao ke kelle terre, per kelli fini que ki contene, trenta anni le possette Sancti Benedicti”. La lauda più ricordata è il Planctus Virginis di Jacopone da Todi: “Te portai nillu meo ventre. Quando te beio, ploro presente. Nillu teu regnu àgime a mente”. Ovviamente il documento ha una sua particolare importanza dal punto di vista linguistico, ma non aggiunge molto alla storia del ricchissimo cenobio patiriense, al quale, nel 1105 papa Pasquale II concedeva il privilegio di abbatia nullius, di “nessuna diocesi”, perché sottratta alla giurisdizione del vescovo e posta sotto l’esclusiva dipendenza dalla Sede Romana. Il privilegio di esenzione era stato richiesto da Ruggero II a favore dell’abate  Bartolomeo e papa Pasquale II era stato ben lieto di concederlo al monastero della Neo Odigitria e alle sue chiese figliali, svincolandoli dalla giurisdizione del vescovo di Rossano, non solo come atto di gratitudine verso la corte normanna, ma soprattutto per  agevolare la ripresa di più amichevoli relazioni con la Chiesa d’Oriente, dopo lo scisma di Santa Sofia del 1054, mediante l’opera dei monaci calabro-greci. E tanto in conformità con l’alleanza politica sancita tra il Papato e la Corte Normanna nei due sinodi di Melfi del 1059 e del 1089, nei quali papa Nicolò II e poi Urbano VII avevano conferito il possesso feudale a Roberto il Guiscardo (e al suo successore Ruggero I), accordando il titolo di duca di Calabria, Puglia e Sicilia. L’obbiettivo dichiarato del papa era quello della sottomissione a Roma, attraverso una progressiva assimilazione del potente e assai influente clero greco, di cui Bartolomeo era sicuramente il più autorevole rappresentante, dopo la morte di san Nilo, fondatore della badia di Grottaferrata. I Normanni, da parte loro, potevano così esercitare la prerogativa dell’ingerenza (non ancora dell’investitura) nella elezione dei vescovi, di entrambi i riti. Della bolla papale si ha testimonianza storica  nel codice greco vaticano 2050, un rotolo  in pergamena di 117 fogli, scritto perpendicolarmente “a colonne”,  proveniente dal Patirion, con il colofone di chiusura del copista che recita: “Il presente libro degli asceti di San Basilio fu terminato l’otto agosto, martedì alle ore 15, dell’anno 6213, nel quale il SS Papa Pasquale concesse al nostro Padre Bartolomeo un privilegio di esenzione a favore del suo Santo Monastero” dedicato alla Madonna Odighitria o Deipara di Costantinopoli.

                               Bulla di Papa Pasquale II
Nel 1813, Giuseppe Genovesi illustrava “Un greco Diploma che si conserva nell’Archivio Generale del Regno, proveniente dal monastero di S. Stefano del Bosco, assieme ad altri tre molibdobolli, di cui due portano il sigillo di Ruggero II conte di Calabria e Sicilia e uno del vescovo di Squillace Teodoro Symerio (stimato abbreviativo di Mesymerio), la cui formula ordinaria  inizia col nome di colui che l’ha fatto: “Anno 6600 die 7 mensis Decembris, indictione 15, Theodorus Divina Miseratione Episcopus Castri Squillacensis, Styli, et Tabernarum, et Syncellus Mesimerius”.              Tale sigillo, a pagina 32, contiene l’annotazione dell’illustrazione dell’antico Diploma, a proposito del quale il Mobillon ricorda che anticamente i vescovi solevano imprimere nei sigilli il proprio nome, quella della propria città e quello del patrono della Chiesa. Nel sigillo sono presenti tutti e tre i nomi: quello di Maria SS Protettrice e quello di Teodoro Symerio, cioè di Simeri.  E’ scritto in greco nella parte alta e iniziale della pergamena e tradotto in basso in latino; porta la data della sua emissione, corrispondente all’anno 1092. Il Diploma costituisce l’atto di fondazione della Chiesa di San Bruno, eretta sul modello della Grande Chartreuse di Grenoble e consacrata nel 1094 alla presenza di Ruggero. Nel 1096 moriva il quinto vescovo squillacese di nazionalità greca, Teodoro Mesimerio, che “le antiche memorie il lodano come uomo di santi costumi, amico e generoso benefattore di San Brunone di Colonia, a favore della cui Certosa non dubitò di cedere, in forma molto cortese, parte della sua giurisdizione, secondo ché vedemmo nel documento di un suo decreto” (6). Gli succedette il latino canonico di Mileto Giovanni De Niceforo, per espressa volontà di Ruggero, di San Bruno e di papa Urbano II. La diocesi rilatinizzata nelle strutture ecclesiastiche e oramai “avulsa dal Trono di Costantinopoli”, comprendeva diverse abbazie e possedimenti nei territori di Squillace, Catanzaro, Stylo e Antistylo, Satriano, Taverna, Simmari (7), Salìa, Barbaro, Badolato, S. Caterina, Santa Maria della Rokella apud Palaeopolim, S. Senatore, S. Gregorio, Rocca de Cathantiaco, Castel di Mainardo e di Cuccolo. E Palepoli era uno dei tre corpi di città dell’antica Trischene col suo controverso vescovato, la cui sede, nel 1122 papa Callisto II trasferì nella cattedrale di Catanzaro (e non a Taverna) con uno scorporo dalla diocesi di Squillace.                                                                                                                                                           Nel 1130 Ruggero II veniva incoronato re di Sicilia, Calabria e Puglia, da papa Anacleto; nel ’94 l’imperatore del Sacro Romano Impero, Enrico VI di Hohenstaufen, conquistava il Regno di Sicilia e inaugurava la dinastia sveva, che avrà il suo culmine politico in Federico II, universalmente noto come Stupor Mundi.       
                                                                                           laghetto di Serra San Bruno                                                                                                                                                        
Sulla Certosa si rinnovano ancora oggi storie e leggende, più o meno fantasiose e suggestive, come quella dell’aviatore americano che nel 1945 avrebbe sganciato la.........