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domenica 31 maggio 2015

" Sutta u mantu da Madonna " Riproposizione per l'ultimo giorno del mese di maggio dedicato alla Madonna del racconto inedito ambientato nell'antico borgo di Sellia






Abbiamo avuto modo di raccontare del  forte attaccamento, del  smisurato amore che il popolo Selliese da sempre porta verso la Madonna, il quale nell’antico borgo durante i vari secoli si è espresso con le chiese dedicate all’Immacolata del S.S. Rosario alla Madonna della Neve e del convento della Madonna delle Grazie. Il racconto che andrò a narrarvi è  successo nel secolo scorso proprio nel mese di Maggio mese dedicato alla Madonna. In  quei tempi le processioni erano due una la prima domenica di maggio l’altra ultimo giorno del mese la quale si svolgeva di sera con una bella fiaccolata. Il nuovo Arciprete era da poco arrivato a Sellia conoscendo ben poco delle tante tradizioni che organizzavano soprattutto le due congreghe. Dopo la Messa la processione tardava causa un forte vento che ne impediva la partenza. I tantissimi bambini erano già pronti su due file i maschietti da un lato le femminucce dall’altro. Erano veramente tanti; tra di loro vi era una minuscola bambina che causa la malaria (malattia molto comune all’epoca) piano piano la stava spegnendo. Aveva quasi sempre la febbre è quella sera bruciava ancora di più. Dopo un bel po’ che si aspettava che il vento diminuisse il suo impeto, l’Arciprete rivolgendosi ai tantissimi fedeli disse che la processione per quell’anno non si sarebbe svolta,  ormai passate le 9 di sera ne tantomeno si poteva rimandare al giorno dopo perche non avrebbe avuto più senso. I tantissimi fedeli presenti mugugnarono un bel po’ invitando il giovane prete di aspettare ancora un po’ Verso le 10 di sera il vento sembrava un po’ meno violento la processione stava per partire ma il giovane prete avendo notato le precarie condizioni di salute della piccola con la malaria invito la madre di portarla subito a casa, la madre quasi offesa con un gesto di stizza si mise “U Maccaturu” nero in testa (segno dei vari lutti) girandosi di  spalle si allontanò lasciando la piccoletta al suo posto in fila, il giovane prete stava per reagire quando il priore avvicinandosi le disse all’orecchio:  “Arciprè sta battella forsi nun arriva mancu a domana, lassatila ma si fa sa prucessiona, u viditi puru vui comu è tutta cuntenta ma sta vicina a ra Madonna” il giovane prete ancora un po’ contrariato ma vedendo come la piccola ci teneva a farsi la processione fece partire il  lungo corteo, le tantissime luminarie facevano brillare il volto della Madonna, il vento anche se molto diminuito  si faceva spesso sentire con delle volate furiose, in una di questa il bellissimo manto della Madonna si staccò volteggiando nel cielo stellato, tutti l’osservavano preoccupati con il serio rischio che poteva finire nel burrone, invece con una traiettoria quasi pilotata si depose sulla piccola bambina malata coprendola tutta. In molti accorsero verso la piccola ma nessuno osava sollevare il manto quasi come se avessero paura  per le sorti della piccola. L’arciprete con cura lo sollevo. Fine prima parte 

A seguire la seconda parte del racconto trascritto in esclusiva da Sellia racconta


giovedì 5 febbraio 2015

Racconto di Giacomino vecchio eremita che dimorava in Sila, nato a Sersale girava con la sua curiosa bisaccia dove non mancava mai la Bibbia.

Una rarissima foto di Giacomino
Giacomino l’eremita della Sila Molti forse non ne hanno mai sentito parlare, ma chi ha una certa età si ricorderà dell’eremita della Sila detto Giacomino. Il suo nome era Giacomo Talarico, ma tutti lo conoscevano come Giacomino. Era nato nel 1907 nel paese di Sersale (CZ) sulle pendici del Monte Gariglione posto sul lato orientale dell’altopiano silano. Sin da ragazzo si dedicò alla preghiera e alla penitenza ritirandosi in solitudine nelle foreste e campagne della Sila. Portava in spalla una curiosa bisaccia contenente tutti i suoi pochissimi beni tra cui una Bibbia che per acquistarla, si dice, andò a Roma a piedi. Morì nel 1976. Non conosceva la paura, il freddo, la malvagità ecc., si dice che il Signore lo aveva sempre protetto, questa persona che arrivava  spesso all'improvviso da non so dove e viveva della generosità della gente mangiava solo il necessario e se capitava di venerdì mangiava anche la carne (che per quei tempi era peccato) ma lui a chi gli diceva che era peccato rispondeva " Non è peccato quello che metti in bocca ma quello che ti esce dalla bocca (bestemmie e maldicenze) . Poi apriva la bibbia e ne leggeva un passo, commentandolo a modo suo. A quanto pare a Sersale suo paese natio con la nuova toponomastica gli sarà dedicata una strada a "Giacomino" qest'eremita di altri tempi che viveva della bontà delle persone che con gioia ma anche con curiosità l'ospitavano, per.......

martedì 3 giugno 2014

Sersale porta d'ingresso "del Parco della Sila" con i suoi 740 metri d'altezza gode di un panorama mozzafiato sino al golfo di Squillace


Sersale

Collocato ai margini della Sila catanzarese, Sersale è considerata la porta d'ingresso del Parco Nazionale della Sila. Dai suoi 740 metri di altezza domina un panorama incantevole che copre tutto il golfo di Squillace.
Il nome Sersale è dovuto alla famiglia Sersale, nobili napoletani provenienti da Sorrento, proprietari del fondo concesso ai boscaioli su cui nel 1620 nacque il paese, ma le sue vere origini sono antichissime e risalenti all'epoca pre-ellenica, colonizzata dai greci e dai romani, di cui ne conserva ancora i resti dei primi insediamenti.
Da vedere, la Parrocchiale della Madonna del Carmine nella parte media dell'abitato, la chiesa dell'Immacolata, la chiesa di San Pasquale e la chiesa delle Crozze.
Legata a questo Comune è la storia di una mamma, Carmela Borelli. Era il 21 febbraio 1929 quando la donna decise di partire per il paese più vicino con due asini carichi di grano per fare il pane. Aveva con sé i due figli più piccoli. Dopo pochi chilometri una terribile bufera investì madre e figli. I bambini, intirizziti dal freddo, ben presto non furono più in grado di camminare. La donna, disperata, ne prese uno in braccio continuando la marcia con le ultime energie. Infine, ormai stremata, si tolse parte delle sue vesti e coprì i suoi bambini difendendoli con il proprio corpo seminudo. Alcuni paesani corsero in aiuto e trovarono Carmela morente e i bambini gelidi, ma salvi grazie al suo sacrificio.
Ogni anno, per ricordare la madre eroica, la ......

martedì 25 febbraio 2014

La festa degli incontri. Uomini, donne e bambini nel Paese delle Idee virtuose “Pentonello”.


 

La festa degli incontri

estatepentonese
Estate pentonellese – Turisti visitano le mostre e acquistano i prodotti con i sapori della Calabria
L’assessore alla Bellezza è in piazza in compagnia di un gruppetto di nostri concittadini, sta parlando di un certo Antony Gormley uomo che sa come stupire.
Oltre ad essere un architetto , racconta Fiore, è un archeologo, ed è l’inventore di un nuovo linguaggio artistico  che ha posto come principale campo d’indagine le diverse relazioni fra il corpo e lo spazio architettonico che lo circonda.
Gormley utilizza il calco grezzo del proprio corpo come matrice  della sua opera, strumento e materia della sua ricerca, qualcuno potrebbe definirlo  un megalomane perché usa sé stesso per le sue opere.
Nel gruppetto sono tutti meravigliati, non solo per la cultura di Fiore ma anche per l’amore che mette nel raccontare e per l’entusiasmo che manifesta. Fiore sa entrare nella vita delle persone, nella vita degli artisti, nelle loro opere, con grande emozione, dopo un po’ ne fa parte, ci vive dentro e ne parla come se fossero vecchi amici.
Le sue opere, continua Fiore riferendosi a Antony, vengono così inserite nei contesti più disparati divenendo veicolo e simbolo di quell’eterna riflessione dell’uomo sulla mutevole realtà circostante: le sue sculture sono esposte a testa in giù e sospese a un filo, in piedi a vegliare pensose in cima agli edifici dei centri cittadini, su promontori innevati, semi-immerse nell’acqua del mare o nel bel mezzo di campi coltivati.
Fiore ha saputo creare grande interesse anche senza parlare sempre di Pizzello, Paparano, da’ fiumara o di Cafarda o de’ Colle Colle. La curiosità per questo artista un po’ strampalato è grande tant’è che qualcuno vorrebbe saperne di più e  incuriosito chiede una foto o un’immagine di queste opere, ed ecco che Fiore apre la portiera della macchina e invita i suoi amici a Catanzaro per un caffè al bar Moniaci, offre lui.
Prima tappa però è il Parco della biodiversità mediterranea, da tanti conosciuto  come Parco della scuola Agraria. Scesi dalla macchina e fatti quei pochi passi necessari per essere immersi nel parco, tutti rimangono a bocca aperta davanti… ad Antony in persona! E non solo perché  senza mutande.
Espposizione di Antony Gormley  al Parco delle biodiversita mediterranee
Esposizione di Antony Gormley nel Parco della biodiversità mediterranea – Catanzaro
Non potevano pensare che la bellezza fosse così vicina e soprattutto gratis. In passato hanno fatto decine di gite, sono partiti con i trolley per andare a Roma, San Giovanni Rotondo, Bologna, Pisa, Venezia. Tanti ricordi e tante foto… con i gladiatori,  sulla scalinata di Padre Pio, vicino alla torre degli Asinelli a Bologna, con le gondole a Venezia.
In ogni viaggio la cosa più importante da fare sembrava quella di portare a casa e ai nipotini le bellissime palle con la neve da tutte le città d’Italia insieme a tanti monili, chincaglierie, reliquiario vario,  per decorare la propria casa, dell’utilità è meglio non parlarne, ma non sempre dobbiamo trovare assolutamente un’utilità pratica nelle cose.
Anche Carmela aveva i cassetti pieni, da ogni gita le figlie le portavano o una palla o una ceramica
Anche Carmela aveva i cassetti pieni, da ogni gita le figlie le portavano o una palla o una ceramica da appendere
Adesso si rendono conto che anche il turismo può essere consapevole e le gite possono arricchire. Si può viaggiare, fotografare, conoscere altra gente e tornare con la testa piena di idee, di belle amicizie, di scambi culturali e non solo col trolley pieno di cianfrusaglie e il problema di come smaltire pantagrueliche e bellissime mangiate. L’assessore Fiore con semplicità ha fatto capire che tutti dobbiamo sentirci protagonisti, dobbiamo informarci e interagire con le altre città, le altre culture.
Vedere nuovi posti, scoprire le bellezze dei paesi che si visitano e al ritorno cercare di applicarle nei luoghi dove si vive. In questo Fiore è perfettamente d’accordo con le parole di Peppino Impastato, e le applica tutti i giorni nel suo lavoro.
“Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore” (Peppino Impastato)
Anche l’assessore del paese vicino è …..

domenica 14 aprile 2013

" A za gelusa du rrè" La Zia gelosa del re (Terza ed ultima parte) Racconti Calabresi

Così il capo brigante viene a conoscenza delle meraviglie che ci sono e pensa -  "Ora capisco perché quella donna vuole uccidere i ragazzi! Altro che usurpare il trono! Sicuramente vuole per sé tutto e sono sicuro che al momento che andrò a reclamare il resto pattuito, con o senza prove, quella mi farà uccidere. Bisogna che mi fermi a pensare." - Diede ordine di accamparsi per la notte, dicendo che l'attacco al mattino era più sicuro. -Così poteva prendere tempo per cambiare i suoi piani - Intanto che il brigante ragionava e pensava al da farsi, Chiomadorata guarda l'anello e si accorge che cambia colore, chiama subito i suoi fratelli e li avverte che c'è un pericolo in arrivo. Insieme strofinano tre volte l'anello e dentro la pietra appare il viso della fata che così parla - "Ragazzi, siete in pericolo ed anche se non posso essere con voi di persona farò in modo di aiutarvi lo stesso." -  Detto questo si vede arrivare un corvo grande e nero che si posa sulla spalla di Selenio e  dice - "Ho il dono della parola per volere della fata vostra nutrice e vi dico che dei briganti, fermi al fiume, sono stati mandati dalla zia del re , gelosa,  per uccidervi. Ho il compito di stare sempre con voi ed essere vostro messaggero. Non posso fare altro!" -  " Fratelli " - dice Chiomadorata - " Dobbiamo contare sulle nostre forze. Usiamo i nostri poteri e guardiamo di allontanare questo pericolo." - Allora Selenio, fece spengere tutte le luci , spalancò  gli occhi che emanavano una luce capace di rischiarare per chilometri la notte, più chiara e più potente di quella della luna piena e cominciò a cercare. Vide la banda ferma al fiume e la riconobbe per tutte le armi che avevano accanto. Descrive il posto ai fratelli e Marino dice - "Ora é compito mio. Mentre io mi concentro, tu, Selenio, tieni gli occhi su quella gente .  Marino  concentra i suoi poteri sulle acque del cielo e del fiume dove sono i briganti e li comanda di crescere. Così, inaspettatamente, i briganti sono sommersi da una pioggia torrenziale e prima che possano rendersi conto di cosa succede il fiume cresce, straripa e li travolge; senza risparmiare nessuno. Intanto alla reggia, miracolosamente scampato ad un mare in tempesta, arriva il re di ritorno dalla guerra. Ad aspettarlo c'é la zia che, sicura di aver sistemato i ragazzi, ricorda al re che deve far giustiziare la moglie ingannatrice per dare l'esempio. E poi pensare a prendere moglie un'altra volta. Perché un regno non può restare senza eredi.
Il re la manda via dicendo che ci penserà. Va a letto. Ma mentre sta per addormentarsi gli sembra che un corvo entri nella stanza e svolazzando canticchi- "Una mamma piange e prega per giustizia e tre figli aspettano notizia".  La mattina si alza con questo ritornello nella testa , va al balcone e vede, proprio davanti,  il palazzo  delle meraviglie : tre volte più bello della reggia. Subito chiama i dignitari e chiede spiegazioni. Questi si mettono a raccontare delle grandi cose che si dicono su quel palazzo e del fatto che nessuno conosca i proprietari che, si dice, abbiano poteri fatati.

domenica 17 marzo 2013

" A za gelusa du rre" La Zia gelosa del re (Seconda parte) Racconti Calabresi

....."Selenio, Marino e Chiomadorata" -  Così li aveva chiamati  - "Voi siete i figli del re, ma lui non lo sa perché ,quando vostra madre vi fece, la vostra zia gelosa gli mandò a dire che invece di voi aveva fatto tre gatti. Così lui, per la rabbia, l'ha fatta rinchiudere nella torre più alta e dal dolore non tornò più a casa. Ora, tocca a voi tornare lassù e mettere le cose a posto. Io non posso venire,  posso però farvi ancora  un regalo: darò a te Chiomadorata un anello che, quando cambia colore, ti avverte di un pericolo e quando lo strofini tre volte puoi vedermi e parlarmi. Di più non posso fare" -  Così detto, senza mettere tempo in mezzo, si ritrovarono fuori dal pozzo. -  "Ed ora dove andiamo?" -  Dissero fra loro -  "Come faremo a cercare nostro padre e salvare nostra madre?"  -  Allora Chiomadorata disse -  "Fratelli,  tagliatemi i capelli e con líoro che ne viene compriamo una casa" - Così fecero e siccome l'oro era tanto comprarono un palazzo vicino alla reggia, più bello e più grande di quello del re,  con un giardino fatto tutto di piante meravigliose. E siccome Marino aveva il potere delle acque, lo aveva riempito  di fontane che danzavano. Lì , Chiomadoro si lavava i capelli. Perciò l'acqua di queste fontane era piena di pagliuzze d'oro che brillavano al sole di giorno e alla luna di notte. Selenio, l'altro fratello, aveva fatto un patto con essa e tutte le notti lei brillava piena sopra il giardino. Viene da sè, che di  queste meraviglie cominciarono a parlarne tutti ed, alla fine, arrivarono all'orecchio della zia del re, la quale ,incuriosita, mandò una spia a vedere come stavano le cose. Questa al ritorno non solo esagerò in meraviglie, ma riferì anche di aver visto due giovani ed una ragazza, di bellezze fuori misura, che avevano uno gli occhi come la luna, un altro gli occhi come il mare e la ragazza una stella in fronte ed i capelli come l'oro. Vi lascio immaginare la faccia della donna! Subito gli venne un tuffo al cuore e pensò - "Se non avessi io stessa buttato i figli del re nel pozzo penserei che questi ragazzi siano proprio loro." -  E più ci pensava e più non stava

domenica 10 marzo 2013

La zia gelosa del re "A za gelusa du rrè" (Prima parte) Racconti Calabresi

C'era una volta un pescatore che aveva tre figlie una più bella dell'altra: La prima si chiamava Filomena, la seconda Fotina e la terza Felicetta. Era rimasto vedovo da quando le figlie erano piccole e le aveva tirate su con l'aiuto  dei vicini, senza mai volersi risposare; perché troppo bella e buona era stata  sua moglie e non poteva trovarne un'altra uguale. Vivevano con quello che riusciva a ricavare dalla vendita del pesce, e non era molto. Ma non si lamentava, anzi era contento, perché diceva di avere avuto la più grande ricchezza quando aveva  messo al mondo tre figlie, non solo di sette bellezze ma anche virtuose, perché non c'era mestiere di donne che non sapessero fare e fare bene. In più erano anche buone e sempre andavano ad aiutare una povera vecchia e gobba che abitava da sola in una capanna e non aveva niente da mangiare. Una sera, che erano a casa della vecchia  perché era malata, dopo averla accudita e messa a letto a dormire , si sedettero sulla spiaggia davanti al mare a guardare la luna piena che brillava sull'acqua, e come tutte le ragazze di questo mondo si misero a fantasticare. La prima diceva  - "Se mi dovessi sposare vorrei sposare il cugino del re e gli farei un figlio con un pomo in mano in modo che quando lui lo mette a terra lì nasca un albero di pomi d'oro" - E la seconda - "Ed io se mi dovessi sposare vorrei sposare il fratello del re e gli farei un figlio che quando batte le mani possa imbandire una tavola ricca di ogni ben di Dio." -  E la terza, che era anche la più bella, disse - "Io, invece, vorrei sposare proprio il re e gli farei tre figli: uno con gli occhi della luna in modo che possa vedere ogni cosa anche di notte al buio, uno con gli occhi del mare in modo che possa governare le acque e sempre navigare senza pericoli  ed una figlia con una stella in fronte, la pelle del giglio ed i capelli díoro come il sole che più li tagli, più crescono e più oro danno. Ora la vecchia che non stava dormendo ascoltò tutto e siccome era una fata che era in giro per il mondo in cerca della bontà, sorrise e disse - "Così sia." -  Il giorno dopo si travestì da mercante ed andò al palazzo del re. Con la scusa di vendergli stoffa per abiti si fece ricevere da lui in persona e tra un discorso e l'altro gli raccontò che in paese c'erano delle ragazze che s'inventavano storie di matrimoni con il re ed i suoi parenti; riferendo i discorsi che aveva sentito. Il re incuriosito disse - " Dimmi subito chi sono queste ragazze o ti taglio la testa." -  La fata, che non aspettava altro, gli dette nome e cognome e poi sparì: perché di più non poteva fare. Il re mandò subito i servi a prendere le figlie del pescatore. Le poverine, che non potevano mai pensare che il re potesse volere mai qualcosa da loro, arrivarono al palazzo; mezze morte dalla paura e dalla preoccupazione díaver fatto qualcosa di male. Bene. Appena il re le vide restò meravigliato da tanta bellezza, specialmente da quella di Felicetta che non osava nemmeno guardarlo. Ma era il re e così si fece serio serio e disse - "Ho sentito dire che  tu Filomena vuoi sposare mio cugino il marchese e che saresti capace di dargli un figlio  con un pomo in mano in modo che quando lui lo mette per terra lì nasca un albero di pomi d'oro, che tu Fotina se mio fratello ti sposa gli darai un figlio che quando batte le mani possa imbandire una tavola ricca di ogni ben di Dio e udite! udite! se io sposo te Felicetta saresti capace di darmi tre figli: uno con gli occhi della luna in modo che possa vedere ogni cosa anche di notte al buio, uno con gli occhi del mare in modo che possa governare sulle acque e sempre navigare senza pericoli  ed una figlia con una stella in fronte, la pelle del giglio ed i capelli díoro che più li tagli più crescono e più oro danno. Alla prova. Il re chiamò il cugino ed il fratello e disse - "Queste sono le vostre spose da qui ad un anno dovranno partorire quello che hanno promesso. Se così sarà io

venerdì 2 novembre 2012

Antichi rituali Calabresi sui morti

cimitero di Sellia
Nelle campagne calabresi sono ancora vive le credenze che legano le comunità dei vivi al mondo dei trapassati, credenze di origine oscura, in cui il terrore verso il mondo dei morti, le antiche superstizioni si uniscono ai cicli agrari, ai simboli propri del mondo contadino. E’ una credenza diffusa che le anime dei defunti siano delle ombre che si aggirano intorno ai sepolcri che possono essere buone o cattive come i Lares e i Lemures dei Latini, prendendo forme diverse come scheletri, serpenti e lucertole. I più superstiziosi non uccidono mai gli animali in cui si crede possano prendere corpo i defunti: in alcuni villaggi silani si ha un rispetto sacro per le farfalle in cui albergano le anime del Purgatorio e si crede che quando una farfalla si aggira intorno al lume acceso sia un'anima in pena che va cercando pace, mentre nei topi che vagano per le campagne si crede che alberghino le anime dannate. Le ombre appaiono nei sogni cercando conforto per le loro anime rivelano segreti, annunciano eventi buoni o luttuosi; quando un'anima appare in sogno si ha il dovere di fornirla di un conforto, visitando la sua tomba, dicendo una messa, cucinando una pietanza particolarmente gradita all'estinto quand'era in vita. Sia i Greci che i Latini commemoravano i morti nel mese di febbraio, il mese delle purificazioni, celebrando le Antesterie e le Feriali, con offerte votive di cibo e vini sulle tombe, in questo periodo era credenza che i morti uscissero dalle dimore dell'Ade e vagassero ansiosi di cibo sulla terra; solo con offerte rituali, banchetti e danze, i vivi potevano placare quelle anime e rafforzare il loro legame con i morti. I calabresi conservano memoria di questo antico costume nei banchetti di carnevale dove, in molti paesi, si mangia e si beve in suffragio delle anime dei propri morti; a Lago si usava ergere un catafalco in ricordo dei trapassati intorno al quale venivano posti pane, vino, uova e legumi. Nei paesi di origine albanese ancora oggi si cuoce una focaccia di forma particolare, bucata al centro, la pizzàtuglit, simile per forma e funzione ai pani dei morti di cui parla Tucidide. I rituali funebri ricordano molto da vicino le usanze antiche. Quando una famiglia viene colpita da un lutto, si spegne il fuoco e le donne sciolgono i capelli, mentre gli uomini restano col cappello e non si rasano. La consuetudine del pianto delle prefiche era comune in tutti i paesi della Calabria e ancora perdura in alcuni villaggi: alcune donne erano chiamate per piangere intorno al catafalco del morto e svolgevano la loro funzione a pagamento. Anche fra i congiunti era importante che vi fossero delle aperte manifestazioni di dolore, tanto che nella tradizione popolare si tramandano vari canti funebri e lamentazioni che compiono le donne parenti del defunto accompagnate dagli altri conoscenti che partecipano al lutto. Il pianto rituale può avvenire solo di giorno e si sospende durante la notte, poiché si pensa che la notte appaia il demonio per godere del pianto delle anime cristiane, inoltre se il morto è un bambino, il pianto notturno gli sarebbe funesto perché gli angeli non lo accetterebbero in cielo. II morto viene posto con i piedi rivolti verso la porta di ingresso e secondo l'uso più antico deve avere i piedi nudi, se è un uomo, e la veste sciolta se è una donna; al momento in cui viene sistemato nella bara gli vengono posti accanto degli spiccioli, necessari per pagare il passaggio nell'aldilà sulla barca di Caronte. I calabresi credono che al momento di muoversi in viaggio verso il regno dei morti si abbia bisogno d’acqua e di pane: a Celico si usa porre accanto al catafalco un tozzo di pane e un boccale, ad Acri si lascia l'acqua accanto al letto di morte per tre giorni consecutivi, convinti che lo spettro si presenti a mezzanotte per berne. Nella città di Bisignano le famiglie più legate alla tradizione usano ancora porre accanto al cadavere un braciere in cui arde l'incenso, perpetuando un rituale di purificazione della casa e degli uomini contaminati dalla morte, simile in tutto alla suffitio dei Romani. Come presso gli antichi Greci, anche i calabresi danno una grande importanza agli onori funebri e hanno grande orrore della loro mancanza considerando che questo possa impedire la pace nel regno dei morti. Per favorire l'ultimo viaggio e sconfiggere gli spiriti maligni che erano nell'aria, gli antichi usavano percuotere con forza su dei vasi di rame. Ovidio ricorda come per compiere il rituale si dovessero percuotere l'uno contro l'altro dei bacili fabbricati a Temesa, l'antica città mineraria calabrese. Col Cristianesimo la tradizione originaria è stata sostituita dal suono delle campane che più è intenso e prolungato, più è utile al defunto. Ad Atene si usava tenere dei banchetti funebri il terzo, il nono e il trentesimo giorno dalla morte, reputando che i giorni multipli di tre potessero essere dei momenti di crisi e lo spettro potesse ritornare nella casa che aveva lasciato; il consumo di cibo rituale allontanava i pericoli di contaminazione con il regno delle ombre e assicurava ai vivi la protezione del defunto che diveniva un antenato benefico per la famiglia. La stessa consuetudine è viva in tutti i paesi della Calabria, ma i banchetti rituali sono stati sostituiti dalle funzioni religiose e dalla partecipazione all'Eucaristia. Durante

lunedì 18 giugno 2012

Racconti Calabresi " La leggenda del Re Niliu "

Un mitico Re Niliu, al cui nome si richiama una grotta dritta, a cunicolo, che dal centro del crinale si perde nelle viscere del monte Tiriolo, è il protagonista di una leggenda nella quale sono coinvolti una famiglia regale, una fanciulla bella ma povera, l'ingenuo servo e un gallo.
Niliu, rampollo principesco, s'invaghisce di una giovane popolana, con la quale compie una fuga d'amore perché i propositi di coronare felicemente il loro sogno, vengono contrastati dalla madre.
Sul giovane in fuga pesa la maledizione dei genitori: sciogliersi come cera colpito dai raggi del sole.
Niliu può incontrare la moglie e il figlio nato dall'unione con la fanciulla, soltanto di notte nel lungo cunicolo naturale che dalla cima del monte arriva fin sul mare, nei pressi della foce del Corace, dove nel frattempo aveva trovato riparo il resto della famiglia. Il giovane viene avvertito del sorgere del sole dal canto del gallo.
La bella storia d'amore tra il principe e la popolana arricchita dal sorriso di un fanciullo rubicondo, va avanti per parecchio rtempo e fino ….. fino a quando le fate hanno deciso di non far cantare il gallo.
Nella fatidica alba, sorpreso dai raggi del sole, Niliu in preda alla disperazione, al servo fedele che chiede conto del lascito delle ricchezze, predice di lasciare tutto al diavolo, il quale a sua volta, diviso il denaro in tre gruzzoli (d'oro, d'argentoo e di bronzo) lo nasconde nelle viscere del monte. L'incantesimo, narra la leggenda in conclusione, si può solo rompere con il ricorso a pratica diabolica.

sabato 4 febbraio 2012

Racconti Calabresi. U palummu ( il colombo) Seconda parte

Le sorelle la spiavano e cercavano di indovinare il suo segreto
ma lei alle loro domande non rispondeva. Taceva sempre e serbava chiuso nel suo cuore il sentimento nato in lei e il suo mistero; ella viveva una storia d’amore. Serrata la porta e aperta la finestra prendeva una di quelle arance e la rotolava per terra; allora per la dischiusa imposta entrava un candido colombo che si tuffava in un bacino d’argento e vi si scuoteva lasciando cadere le penne e si trasformava nel più bello e forte giovane che si potesse immaginare. Dice la leggenda che era il figlio del re, e che un crudele destino lo costringeva da lungo tempo a vivere da colombo in mezzo all’avito aranceto. Per mezzo dei pomi rotolati per la stanza, la figlia del mercante lo chiamava ai dolci colloqui d’amore. Poi, quando il tempo era trascorso, il giovane si rituffava nel bacino e ne usciva trasformato in un colombo e tornava nel giardino.Avvenne un giorno che le sorelle penetrarono a sua insaputa nella stanza, e, rovistando con curiosità per ogni angolo, trovarono le arance che lasciarono cadere per terra e rotolare. E videro poco dopo venire un colombo, battere contro i vetri che si confissero nel petto, cadere per terra, e poi lentamente, alzarsi in volo e sparire. Quando Cenerentola tornò nella sua stanza, indovinò dal disordine che qualcosa di nuovo era accaduto. Vide le arance per terra avvizzite, le vetrate rotte e le gocce di sangue per terra. Invano rotolò per terra i pomi e invano attese il sospirato ritorno del principe. Dopo un lungo pianto si fece coraggio. Chiese a suo padre la benedizione e partì per la città dove il reuccio malato giaceva.
Lungo il viaggio più volte la notte la sorprese in mezzo ai boschi. Una volta, mentre si riposava ai piedi di un albero, fra i rami un enorme uccello si posò facendo uno strano rumore e un sinistro stormire di fronde. Poi un altro uccello si posò sullo stesso ramo, che per il peso si piegò. E tra i due uccelli (tra la femmina che attendeva e il maschio allora giunto) iniziò uno strano dialogo.
immagine fiaba

lunedì 30 gennaio 2012

Racconti calabresi. U palummu ( il colombo) prima parte

la fanciulla presso il fuoco gif animata
Un mercante aveva tre figlie
due delle quali erano brutte ed un’altra era invece bellissima. Le due figlie brutte per invidia maltrattavano la bella e la confinavano davanti al fuoco chiamandola Cenerentola.
Un giorno il padre, prima di partire per un lungo viaggio chiese alle figlie quali doni volessero. Le figlie vanitose scelsero vesti e gioie; Cenerentola, invece, disse di volere tre pomi dall’aranceto del re e aggiunse ancora che sarebbe potuto naufragare in mare in caso di dimenticanza. Le sorelle la rimproverarono aspramente ma il padre che l’amava le fece zittire. Poi le abbracciò e partì.
Vide genti e terre nuove. Comprò i doni per le due figlie brutte, ma si dimenticò infine della richiesta di Cenerentola. Solo mentre la nave era già in mare veleggiando, se ne rammentò, mentre erano a poca distanza dalla riva; cominciò a soffiare un vento impetuoso, che sembrava travolgere la nave. Il pilota impaurito allora domandò se mai alcuno non avesse adempiuto a qualche voto per il quale pesasse su tutti l’ira del cielo. E il mercante si ricordò della figlia e dell’imprecazione, e, con l’animo addolorato, si fece trasportare alla riva. Ed il vento tacque e il mare tornò tranquillo.

mercoledì 24 agosto 2011

Racconti calabresi. L'orcu (l'orco)


Un pover’uomo per contentare i desideri di sua moglie incinta andava a raccogliere frutta in un giardino presso il mare che aveva il profumo degli aranci in fiore. Il giardino apparteneva all’orco, il quale vedeva sparire pomi e fiori. Per sapere chi osasse tanto, un giorno scavò una buca e vi si nascose, coprendosi con delle erbe per non farsi vedere e lasciando scoperto un orecchio, quasi a fior di terra, per sentire i rumori che facevano intorno.
l'Orco sorprende l'uomo
L’orco non aspettò molto; l’uomo, come al solito, venne e raccolse frutta e fiori. Stava per andarsene quando a caso vide l’orecchio dell’orco rosso per il sole e credutolo un fungo tentò di strapparlo dal suolo. L’orco allora balzò in piedi, pronto ad ucciderlo, ma l’uomo si prostrò ai suoi piedi e a mani giunte lo supplicò di risparmiarlo, e raccontò tutto dei casi suoi, della moglie incinta e del figlio che doveva nascere. E alla fine promise all’orco che glielo avrebbe fatto tenere a battesimo. L’orco si calmò ed accettò volentieri di fare da compare, ma si fece promettere che se una bambina fosse nata, all’età di nove anni sarebbe stata sua.
Destino volle che proprio una bimba nacque pochi mesi dopo e che venne bella come un fiore. Già aveva compiuto i nove anni quando ignara di tutto un giorno andando a scuola incontrò l’orco che l’aspettava e le raccomandò  di ricordare alla mamma la promessa. La bambina tornò a casa e fece l’ambasciata, ma la madre le rispose che, incontrando l’orco la prossima volta, fingesse dimenticanza. La bambina incontrò l’orco molte volte e disse sempre di aver dimenticato di dire alla mamma della promessa. Alla fine l’orco accompagnò le parole con un morso al dito mignolo della fanciulla. Ormai non c’era più niente da fare e la fanciulla dovette andare a vivere con l’orco.
I primi giorni furono tristi per la ragazza, ma l’orco, con tenerezza e carezze seppe confortarla. Poi la fece andare a scuola dalle fate che le insegnarono a cucire, a ricamare d’oro e quant’altro rende avvenente una fanciulla. Divenne così una creatura bella e perfetta. L’orco aveva tutte le attenzioni di padre e quando rincasava nel suo castello da sotto il balcone fiorito perché le porgesse le chiome nere e lunghissime su per le quali arrampicandosi toccava il davanzale.

mercoledì 8 giugno 2011

Racconti calabresi. A fortuna e u galantomu ( la fortuna e il galantuomo)

LA FORTUNA E IL GALANTUOMO
Una volta s' incontraro la Fortuna e il Galantuomo e si misero adiscorrere. Mentre la Fortuna diceva che la fortuna fa danaro, il Galantuomo le ribatteva che il danaro fa danoro. Ma la Fortuna gli disse: "sai cosa puoi fare? regala cento ducati a questo cordaio e vediamo se fa fortuna".Il Galantuomo gli regalò cento ducati e il cordaio se li presee, dalla contentezza che aveva per quel danaro, buttò l'accetta lontano lontano e se ne andò al suo tugurio. Alla moglie non disse niente. Prese una pignatta, vi infilò i cento ducati che coprì con la cenere e poi uscì. Dopo che fu uscito, si trovò a passare di là un pignataro che diceva:" chi cambia pignatte vecchie con le nuove?"        La  moglie del cordaio sentì e lo chiamò e cambiò la pignatta. Ma come vide che dentro c'era cenere disse al pignataro: "aspettate che butto via la cenere". E il pignataro: " no, lasciate che la butto io". Prese la pignatta e se ne andò. Come andò a buttare la cenere, vide i ducati. Prese e nascose in un buco di un vecchio casolare la pignatta con tutto il danaro. Quando il cordaio si ritirò a casa non vide la pignatta. Domandò alla moglie che ne aveva fatto;La moglie gli rispose che l'aveva scambiata con una pignatta nuova. Egli si arrabbiò e uscì. Di nuovo s'incontrarono la Fortuna e il Galantuomo e domandarono al cordaio cosa aveva fatto del danaro. Il cordaio raccontò il fatto così com' era andato. La Fortuna disse allora al Galantuomo:" lo vedi che la fortuna fa danaro?" "come?!" fece il Galantuomo. " Questo è uno stupido che certo non poteva fare danaro. Altrimenti non li avrebbe messi nella pignatta e non li avrebbe coperti di cenere"."Va bene!" disse la Fortuna. "Sai cosa puoi fare? dagli altri cento ducati e vediamo se fa fortuna". Prende, il Galantuomo, e gli da altri cento ducati. Il cordaio li prende e se l'infila in tasca e se ne va al bosco per fare legna. Appena arrivò, si tolse la giacca e la mise in terra. Mentr'era lontano, scende un uccello rapace e gli prende la giacca. Quando il cordaio tornò e non vide la giacca, tutt'arrabbiato se ne andò a casa. Lungo la strada incontrò la Fortuna e il Galantuomo e raccontò loro il fatto. Allora la Fortuna si gira e dice al Galantuomo " lo vedi che la fortuna fa danaro?". Il Galantuomo diceva di no e la Fortuna ripeteva di si. Alla Fine la Fortuna diede al cordaio una palla di piombo e gli disse:" bada di saperla tenere". Il cordaio la prese e se ne andò. Arrivò a casa e buttò quella palla di piombo in una cassa. Dopo alcuni giorni a un marinaio mancava piombo per mandare le reti a fondo. Pensò di andare dal cordaio. Ci andò e appena entrò gli disse :" compare, mi manca un poco di piombo per far calare la rete in mare. Se ne avete voi e me lo date, mi fate un piacere". Il cordaio si ricordò della palla della fortuna. La prese e gliela diede. Il marinaio contento gli disse: " Vi ringrazio, compare, e dei pesci che prendo ve ne d0o la parte". Il giorno appresso questo marinaio buttò la rete in mare e quando fu l'ora incominciò a tirare. Tira tira, pescò un solo pesce che era grande. Come lo vide, il marinaio si disse: " adesso come faccio col compare?!! Gliel' ho promesso e glilo devo dare". Prende e gli porta il pesce. Il cordaio non lo voleva; ma il marinaio tanto gli disse, che alla fine se lo prese. Dopo che il marinaio se ne fu andato, il cordaio spacco il pesce e dentro vi trovò un nido che era così bello che pensò di portarlo alla regina. Glielo portò infatti, e la regina gli diede un borsone pieno di danaro. Avuto questo danaro, il cordaio pensò di comprare un fondo (proprietà terriera). Dopo che l' acquistò ci stava sempre là a lavorare. Un giorno il figlio alza gli occhi e vede un nido su un albero. Disse al padre :" tata,tata, guarda quel nido! Adesso salgo e lo prendo". Il padre non voleva, ma il figlio salì e lo prese. Lo prese e cos' era? Era la giacca che era stata rubata dall' uccello rapace. Appena il cordaio la vide saltò dalla contentezza, perchè dentro la tasca trovò i cento ducati. Li prese e stavolta li tenne ben custoditi. Intanto coltivava il fondo e un giorno il cordaio disse ai suoi figli: "Adesso dobbiamo fabbricare per avere una casetta". Per fabbricare la casetta, cominciarono a demolire il vecchio casolare che c' era là nel fondo. Dopo che l' acquistò, ci stava sempre la a lavorare . Mentre demolivano  questo casolare  vide  in un buco una vecchia pignatta e lui capi' subito che era la sua. La prese e vi trovò anche i cento ducati. Tutto contento....

mercoledì 2 febbraio 2011

Racconti calabresi. Mastru Giannuzzu u scarparu. Di Antonio Cotroneo ( Quarta e ultima parte )

Mastru Giannuzzu u scarparu e' stato, indubbiamente, uno dei personaggi piu' carismatici
della contrada e che io ho avuto modo di conoscere. In lui si notava una grande serieta',
un forte attaccamento al lavoro e alla famiglia.
Amava la musica e, sopratutto, il gruppo dei bandisti che aveva formato e che con tanto
entusiasmo dirigeva. La passione per la musica lo induceva ad esercitarsi costantemente
e quotidianamente con il suo strumento preferito: la tromba. Infatti, prim
a di partire per una festa di paese, lo si vedeva dietro la finestra a provare e riprovare
ripetutamente le marce e i pezzi musicali. Prendeva con molto impegno e serieta' tutto
quello che faceva nella vita, mettendoci tanto amore e umilta', trasmettendo a molti altri
quanto di positivo c´era in lui. Non voleva strafare, emergere a tutti i costi. Intendeva
solamente trarre, da quanto faceva, piccole gioie e soddisfazioni che lo rendevano felice e,
nello stesso tempo, lo portavano ad amare la vita. Il mastro ha esercitato u misteri du
scarparu e ha suonato con la banda fino a tarda eta'

lunedì 31 gennaio 2011

I giorni della Merla, i giorni più freddi dell'anno

I giorni  della  merla  sono  considerati i  giorni  più  freddi  dell'anno. Se  sono  freddi,  la Primavera  sarà  bella,  se  sono  caldi  la  Primavera  arriverà  tardi. Le leggende  intorno  a  questa  tradizione  sono  molte,ecco la leggenda più famosa

Era la fine del mese di gennaio e faceva un gran freddo, freddo come non si era mai sentito prima d'allora; tutto era coperto di neve, i prati, gli alberi ,le case.
I merli allora erano tutti bianchi, e quasi non si vedevano in mezzo a tutta quella neve.
E la merla continuava a guardare in giro, di qua e di la', perchè non sapeva dove andare a posarsi per il freddo che faceva.
Finalmente vide un camino che fumava e disse al merlo suo compagno: "Guarda quel camino come fuma; entriamo a scaldarci" ; e lui disse: "Va bene, entriamoci".
Insomma, i merli entrarono nel camino e ci rimasero tre giorni e tre notti.
Passati i tre giorni la merla guardò fuori, vide che era spuntato nuovamente il sole e disse : "Usciamo".

sabato 29 gennaio 2011

Racconti calabresi. Mastru Giannuzzu u scarparu. Di Antonio Cotroneo ( Terza parte )

Aveva un orecchio musicale finissimo ed era capace di accordare la mia chitarra in un batter d´occhio. Poi, con lo strumento suonava e strimpellava vecchie canzoni di
"sonatur´i sutt´e barcuni" e stornelli calabresi. Dirigeva una banda composta da vecchi artigiani tropeani che si recavano a piedi nei paesi vicini di campagna, per suonare durante le processioni e le feste campagnole. Era denominata "banda du vinu", per le tantissime stonature che si sentivano (quando i componenti della banda arrivavano a piedi al paese e iniziavano suonare erano gia' brilli) e per i contratti atipici che stipulavano con i parroci e le commissioni delle feste. Infatti, quando "s´addubbavanu ", (si accordavano) chiedevano poco denaro per la prestazione. Preferivano i prodotti locali (´ndujia, suppressati, salami, capicoi, pan´i casa) e, specialmente, vino che bevevano mentre ritornavano a piedi al paese. Spesso, parecchi componenti della banda rientravano barcollando per le strade, tanto che dovevano essere accompagnati dai parenti e dagli amici fino a casa.. Un´altra importante funzione esercitata dal calzolaio, era quella di suonatore di grancassa e tamburello, per la festa folcloristico popolare burghitana:" I tri da Cruci". Ogni sera, prima che iniziasse a battere la "grancascia"(grancassa), decine di ragazzini burghitani lo aspettavano con impazienza presso la fontana, affinche' ne scegliesse uno per reggergli il grande tamburo. Una volta
ho provato una grande gioia quando ha voluto che io gli tenessi "a grancascia" per tutto il percorso. Infatti, prima di sera i suonatori, scendevano dal Borgo tambureggiando e, arrivati a villetta svoltavano per via Nazionale.
Salendo da questa strada arrivavano in piazza, a Porta Nova, dove si riposavano per una decina di minuti davanti al Purgatorio. Poi riprendevano nuovamente a tambureggiare e i colpi, dati con un mazzuolo imbottito, erano piu' forti, piu' veloci, in modo da richiamare maggiormente l´attenzione delle persone che si trovavano a passare.

martedì 18 gennaio 2011

Racconti calabresi. Mastru Giannuzzu u scarparu. Di Antonio Cotroneo ( seconda parte )

Infatti, l´ apprendista, remunerato settimanalmente con qualche spicciolo, oltre ad imparare il mestiere per poter un domani vivere, a casa del mastro era anche salvaguardato e protetto, affinche' non andasse in giro per il paese a vagabondare, oziare, frequentare brutte compagnie che lo avrebbero sicuramente condotto sulla strada sbagliata: la malavita. Se il mastro notava  che "u discipulu" era ubbidiente e volenteroso,
pazientemente gli trasmetteva tutti i segreti del mestiere, affinche' un domani divenisse un valente "scarparu" ed essere, cosi', orgoglioso di aver contribuito non solo a farlo "mastru" ma anche uomo corretto, stimato e ben voluto dall´intera collettivita' del paese. Attualmente, calzolai se ne contano ancora un paio che esercitano "u misteri" facilitati dai moderni macchinari e attrezzature messe a disposizione dall´industria. Io sono nato un
piano sopra la casa di Mastru Giannuzzu. Dato che la nostra abitazione era pericolante,
mia madre, qualche anno dopo, si trasferiva in una casa piu' grande di fronte al Mastro.
Uscendo dalla sua porta c´era un piccolo giardino, con tanti fiori, che lui annaffiava e
curava con tanta pazienza e dove io, da bambino, mi recavo a giocare, guardato da sua
moglie. Il mastro era tipo di poche parole, laborioso davanti al "banchettu di scarpi";
attaccato alla famiglia e, ancor di piu', alla sua tromba con cui si esercitava tutti i giorni
durante le frequenti pause lavorative.

lunedì 3 gennaio 2011

Racconto Calabrese "Mastru Giannuzzu u scarparu "di Antonio Cotroneo (1° parte)

MASTRU GIANNUZZU U SCARPARU
Nci volerranu i petti e ferru sutta e scarpi toi" Cosi' si lamentava mia madre perche' le scarpe nuove erano nuovamente rotte dopo neanche una settimana che mastru Giannuzzu le aveva risuolate. La casa del calzolaio, non distante dalla nostra, sembrava
un convento. Tutta la giornata c´era un via vai di gente che entrava ed usciva, portandogli paia e paia di scarpe da riparare e ritornando a casa con quelle che il mastro aveva conzatu. U misteri du scarparu, (del calzolaio) insieme a quello del falegname e del
fabbro, era una delle attivita' artigianali che piu' prosperavano dopo gli anni sessanta nel nostro paese. In ogni rione di Tropea se ne contavano parecchi di questi "acconzatur´i scarpi". L´eta' media dei mastri che esercitavano questa professione nella nostra contrada era intorno ai sessant´anni. Fra i tanti ricordo Mastru Vicenzu Bova, la cui bottega si trovava vicino alla fontana comunale; Mastru Nuzzu che esercitava u misteri dentro casa; Mastru Cicciu e mastru Carminu che abitavano nello stesso portone di mia nonna; "Ntoni e mastru Micheli, due fratelli che vivevano soli in una vecchia e buia abitazione vicino al mio negozio. Alcuni di questi scarpari, oltre ad esercitare la professione, erano dediti anche alla vendita di scarpe nuove e stivali di gomma che venivano usati dai contadini e dai cacciatori.